Archive for ‘INSTANT MEMORIES@appunti e impressioni’

marzo 27, 2019

“Quella metà di noi”. Oltre il gioco del doppio. Una sera con Paola Cereda, 26/3/2019

cereda

Matilde Mezzalama è una maestra in pensione che decide, invece di godersi la sua tranquilla vecchiaia nel quartiere periferico di Barriera di Milano, a Torino, di rimettersi in gioco e accettare di accudire un anziano ingegnere che abita nel centro della città.

E’ questo l’elevator pitch 1 de “Quella metà di noi, l’ultimo romanzo di Paola Cereda, titolo che stramerita di comparire tra i 12 finalisti dell’ambitissimo Premio Strega 2019.

Il tema del corpo involucro, della sua cura ai fini della sopravvivenza, è un argomento di grande attualità. Il rapporto tra Matilde e l’ingegnere, è il prisma narrativo principale di questo romanzo, e se scelta è stata, l’autrice non poteva fare scelta più efficace. Nel rapporto stesso tra “badante” e “badato”, in quel compromesso emotivo si può già individuare l’elemento della metà per antonomasia, replicata in diverse accezioni: Il prima e il dopo l’infermità, l’accudire la casa del malato per poter accudire una casa dall’altra parte del mondo, in una sorta di remotizzazione e sdoppiamento del prendersi cura.

IL GIOCO DELLE META’. In questo romanzo ogni personaggio si confronta con una sua metà ad assetto variabile, più o meno inconsapevole. E’ questo l’aspetto che sorprende e appassiona il lettore, perché il grande merito di Paola Cereda è quello di avere creato personaggi universali, nei quali chiunque può riconoscere chiunque. Altro pregio raro di questo romanzo è l’essere andato ben al di là dell’esperienza del visconte dimezzato o dell’uomo duplicato, o di tutte le altre esperienze narrative precedenti che hanno esplorato la suggestione del doppio.

Ma allora, cosa spinge realmente Matilde ad imbattersi nelle fatiche di un nuovo mestiere che non le appartiene?

E’ quindi la verità, la palla di cannone che spezza in due quasi tutti i personaggi di questo romanzo? O è un segreto ben custodito? Un segreto come quelli che abbiamo tutti, e che determinano altre vite rispetto a quelle che abbiamo. Le parole mai dette sono come figli mai nati.

Un ruolo di primo piano nella ricerca di quella metà spetta ai LUOGHI. Il passaggio dalle ambientazioni in provincia (nei lavori precedenti di Paola) a quella in città tiene molto bene grazie ad un evidente vissuto, alla capacità di adattamento del linguaggio e dei ritmi narrativi. Rispetto ai lavori precedenti Paola Cereda, con grande sensibilità, smonta grandangolo e filtro colorato dal suo obbiettivo. Anche i tempi di esposizione cambiano. Quello che leggiamo è la conseguenza di uno sguardo più lento, dentro allo scorrere quotidiano, con una messa a fuoco più nitida, senza rinunciare all’ironia dal sapore spesso malinconico, nella descrizione di una Barriera di Milano per quella che è oggi, pulsante e multietnica. Nella toponomastica e nella trasformazione degli esercizi commerciali.

Alcune pagine particolarmente suggestive sono quelle ambientate al Banco dei Pegni, ricalcando, ma andando già oltre, in una sola manciata di pagine, il lavoro matrice di Elena Loewenthal nella sua “Giornata al Monte dei Pegni”. Quando entri al Monte dei Pegni devi essere disposto a lasciare qualcosa di te, e contemplare un riscatto. Separarsi da un oggetto personale che viene pesato, valutato, trasformato in valuta. Un luogo popolato da personaggi fuori dalle righe che l’autrice rende memorabili, tra leggenda e ironia.

Ma il ruolo di luogo protagonista spetta senz’altro al tram numero 4, linea tramviaria che collega la periferia nord di Torino a quella sud, passando per il centro. Un microcosmo viaggiante che può contenere vite a capienza praticamente infinita.

Abbiamo tante vite quante sono le persone che incrociamo, ogni volta la nostra vita  potrebbe cambiare. La scelta è nostra.

Stare sul tram numero 4 è in fondo come viaggiare per il mondo, attraversando una sola città, venire a contatto con l’umanità più assortita, contenitore di storie che precedono sempre l’immaginazione. Non quella di Paola.

Quella metà di noi – Paola Cereda – Giulio Perrone Editore

26/3/2019 Libreria Il Gatto che pesca – San Mauro Torinese (TO)

 

MM

aprile 20, 2018

La Madonna col cappotto di pelliccia. Tragedia d’amore o metafora dell’oppressione?

la-madonna-con-il-cappotto-di-pelliccia-904x670Sabahattin Ali, intellettuale comunista e giornalista. Negli anni venti e trenta, per i suoi articoli contro il regime di Ataturk finisce in carcere più volte. Forse è per questo che tantissimi ragazzi di Piazza Taksim e Gezi Park, durante le manifestazioni del 2013 contro il regime di Erdogan, hanno nello zaino una copia del suo romanzo “Madonna col cappotto di pelliccia”, pubblicato per la prima volta nel 1944, e resuscitato proprio nel 2013, riproposto da una piccola casa editrice turca, e nel 2015, per l’Italia, da Scritturapura. Il romanzo, che in Turchia ha venduto in questa seconda vita più di un milione di copie, appare di per sé come una semplice, seppur travagliata storia d’amore. La Madonna col cappotto di pelliccia non è un romanzo politico, ma ostentare una copia di un libro di Ali, ad Istanbul, oggi, è un gesto di opposizione silenziosa molto coraggioso. Sabahattin Ali infatti, muore in circostanze misteriose, nel 1948, al confine con la Bulgaria, probabilmente ucciso dal suo passeur, o indirettamente dal regime (o quel che ne rimaneva) che aveva sempre combattuto con i suoi articoli su varie riviste, tra cui sopratutto Marco Pasha.

La scrittura di Ali appartiene ad una certa Europa. Quella di Kafka e Pessoa, con i loro personaggi che fanno mestieri poco affascinanti, sono metodici e produttivi. Per l’attenzione al particolare, fino quasi alla paranoia, tanto che lo stile che ne viene fuori è quasi monocolore, la narrazione monocorde e ipnotica. Sembra di partecipare senza mediazioni ai pensieri del personaggio narrante, in diretta. Per quanto riguarda la trama, il romanzo incarna i canoni più classici del romanzo romantico tragico, persino all’eccesso.

Berlino, 1922. Raif passa ore intere dentro una galleria d’arte, ad ammirare un dipinto con una donna bellissima: la Madonna con la pelliccia. Raif si innamora perdutamente di quella donna, che poi esiste, si chiama Maria, ed è di origini ebraiche. I due iniziano una relazione complessa. Lei è forte, determinata, lui è sensibile, troppo sensibile. E’ l’anticipazione del disequilibrio. La donna determinata, spregiudicata, l’uomo impaurito e passivo. Se pensiamo a quando è stato scritto questo testo (1940-41), riusciamo ad ammirare il gioco di specchi che Ali ha costruito, con sapienza, e soprattutto grande intuizione.

La Madonna col cappotto di pelliccia è quindi solo una tragica storia d’amore? Non saprei dirlo. Forse si. Oppure no.

La società turca è troppo complessa perché noi europei la si possa decifrare, ogni tentativo di andare oltre la storia è davvero un grande azzardo, ma io non riesco ad immaginare un personaggio come Sabahattin Ali, perseguitato politico, che scrive una semplice storia d’amore tra un uomo e una donna.

Perché un intellettuale, dissidente, che ha vissuto sulla propria pelle la violenza di un regime, dovrebbe scrivere una storia d’amore ambientata a Berlino, tra il 1923 (tentativo di colpo di stato di Hitler) e il 1933 (inizio della persecuzione degli ebrei con la notte dei lunghi coltelli), senza mai inserire un minimo riferimento, anche solo una riflessione, una frase sulla violenza delle dittature? Come se nel romanzo avesse voluto lasciare un grande protagonista sottointeso. Cosa impedisce a Maria e Raif di vivere felicemente il loro amore? Qualcosa di superiore al quale bisogna assoggettarsi, e ne determina l’odiosa ingiustizia. Il destino dei personaggi è schiacciato da questa forza superiore, ed è accettato con passività. Ecco come rappresentare la violenza di un regime totalitario. Come un qualcosa che irrompe nella vita di tutti i giorni, e ne soffoca il diritto alla vita.

Un libro che consiglio vivamente.

La Madonna col cappotto di pelliccia. Sabahattin Ali

Pubblicato in Italia da Scritturapura, 2015

sabba

Sabahattin Ali. Berlino, Tiergarten

settembre 13, 2017

Polesine. La nostra Amazzonia in cortile

IMG_20170913_085242.jpg

Non lo so nemmeno io, perché ultimamente mi sono appassionato così tanto alle terre del Delta del Po.

Io che sono sardo e per noi sardi acqua e terra sono due componenti ben definiti da adorare e temere in misure ben certe e contrapposte. Ma io sono sempre stato attratto da tutto ciò che è sospeso nel tempo, a tutto ciò che oppone resistenza al cambiamento. A tutto ciò che è immobile, ed è. Esiste. A dispetto della modernità, delle cose che cambiano. Una silenziosa opposizione alla truffa.

Viviamo in città sempre più caotiche, frammentate da nuove geografie funzionali che le isolano dall’esterno. I centri sono entità a parte, hanno una loro identità specifica, mentre le periferie sono tutte uguali. Queste nuove geografie funzionali (per non chiamarle cicatrici) sono descrivibili solo per la funzione che svolgono, che quasi mai è quella di piacere, ma solo di trasportare, collegare, realizzare spine, passanti, tunnel metropolitani, oppure per ricucire ferite del passato, perpetrando però gli stessi errori, come ricalcare vecchi tracciati ferroviari, il tutto chiamato con nomi leggiadri ma fuorvianti, troppo belli per ciò che rappresentano. Sono proprio questi, quelli che l’antropologo francese Marc Augé chiama “non luoghi”.

Il Polesine è certamente (diventato) l’archetipo dei non-luoghi italiani; una vasta depressione tra due grandi corsi d’acqua, avvolta da una nebbia chimica quasi eterna, sotto al livello del mare. Un territorio dai confini variabili a piacimento della natura.

Il Polesine è un posto dove da sempre è difficile vivere. E famoso per le alluvioni, per essere sempre stata terra di emigrazione, come un Sud incastonato nel nostro profondo e industrializzato Nord. Un luogo deve avere tre caratteristiche essenziali: essere identitario – in grado quindi di individuare l’identità di chi lo abita – essere relazionale – stabilendo una reciprocità dei rapporti tra gli individui funzionale ad una comune appartenenza – essere storico – mantenendo la consapevolezza delle proprie radici in chi lo abita. Il Polesine non è niente di tutto ciò.

Due libri hanno soddisfatto la mia fame di immersione in quei luoghi attraverso le parole, in attesa di poterci andare di persona, spero presto: “Anime galleggianti”, (La nave di Teseo) di Vasco Brondi e Maurizio Zamboni. Vasco Brondi è autore e cantante de Le luci della centrale elettrica, a mio avviso il progetto più interessante della scena musicale dell’ultimo decennio, e “Confessioni audaci di un ballerino di liscio”, (Baldini&Castoldi) di Paola Cereda, una delle autrici più talentuose del nuovo panorama della letteratura italiana. Con entrambi ero già in contatto diretto, perché loro sono due dei miei artisti preferiti, con le loro opere sanno sempre come arrivare a me, cosa raccontare, con quali ritmi. Li avevo già seguiti nei loro viaggi di città, di periferia, di bassa padana, di Sud Italia e li avevo amati, sempre. Stavolta è come se si fossero messi d’accordo per portarmi in quella terra affascinante, senza nemmeno conoscersi tra di loro anche se vorrei che lo fosse, per raccontarmi cos’è la vita lì, di cosa è fatta.

Anime galleggianti è un viaggio a bordo di una zattera a motore, la discesa di un canale preso da una strada provinciale, come una porta di un universo parallelo. Da lì inizia un viaggio fino ad arrivare al mare, approdo finale. Ci vorranno due giorni di viaggio,” come andare in Australia o alle Hawaii”. E’ un viaggio tra Pescatori di frodo che appaiono all’improvviso tra le fronde, e alla vista di altri esseri umani ritraggono in fretta e furia i loro galleggianti. Stanno in postazioni ritagliate nella fitta vegetazione, attrezzate con ombrelloni e una sedia di plastica che sembrano troni aborigeni.

Ore di navigazione con gli aironi che ogni tanto condividono la strada dal cielo, la vegetazione fittissima ai lati, senza incontrare niente e nessuno, poi sfiorare il mondo civilizzato di una strada statale, vista da una prospettiva diversa, a pelo d’acqua, qualche ponte in ferro, che chissà l’ultima volta che qualcuno lo ha attraversato.

Luoghi ai margini del mondo in cui ascoltare le proprie solitudini e le proprie fantasticherie, in contemplazione dei silenzi d’acqua. Il Polesine, la nostra Amazzonia in cortile, popolata da anime sospese nel tempo, personaggi leggendari che sfidano l’inospitalità di quei luoghi fino a vincere il braccio di ferro tra resistere e desistere, stabilirsi in baracche, case, ville, roulotte, impiantare attività, impadronirsi di spazi altrimenti di nessuno, diventare alieni nel centro esatto dell’Europa, tra un Est e un Ovest mai così vicini, in nessun altro luogo.

Uno di questi luoghi, non troppo in lontananza, potrebbe essere Bottecchio sul Po, e quella casupola in mezzo al nulla il Sorriso Dancing Club, gestito da Frank Saponara, ballerino di liscio, fedele alla tradizione e impermeabile alle novità, ma anche uomo incapace di amare una donna fino alle estreme conseguenze di una vita condivisa.

Confessioni audaci di un ballerino di liscio è una storia di bilanci, di rimpianti non ammessi. “C’è da amarla questa baldracca della vita” perché ha le virtù di ogni donna che Frank ha amato. “Ci sono persone che attraversano la nostra esistenza con lo scopo di lasciare un segno”.

Alla festa dei cinquant’anni del Sorriso quelle persone ci sono tutte, una via di mezzo tra un amarcord e un giudizio universale. Scorrono come un fiume davanti ad un Frank immobile, nel suo tempo andato. Personaggi sopra le righe, eccessivi, eccentrici, o semplici fino al midollo. Una kermesse di umanità che credevamo scomparsa nel tempo, insieme alle balere con le luci stroboscopiche, i gin tonic, il ghiaccio secco, e i cravattoni.

Ma c’è qualcosa di profondo, che rende tanto autentico il personaggio di Frank e i suoi luoghi. Il fiume che scorre, l’immagine degli argini che non cedono malgrado le piene, malgrado tutto ciò che il fiume raccoglie nella sua corsa verso il mare attraversando centinaia di chilometri di terre lanciate senza freni nella modernità. «La notte mi consolai con quattro gin tonic e un classico del liscio, illudendomi di poter bastare a me stesso. Dopotutto le persone finiscono per assomigliare ai luoghi dove vivono, provavo a convincermi, e io dovevo al fiume il mio perpetuo scorrere.»

Confessioni audaci di un ballerino di liscio è prima di tutto una storia scritta divinamente bene, tanto che in alcuni momenti ti sembra di sentire la musica dell’orchestra, i profumi alcolici dell’acqua di colonia delle signore, mischiati alla polvere della pista da ballo e al sudore. All’odore stantio del fondo dei vermouth nei bicchieri.

Una avvertenza per chi vorrà addentrarsi in queste terre parallele e misteriose, tra realtà fotografica e letteratura di altissimo livello.

Il rischio è quello di rimanerci incastrati dentro. Per sempre.

 

MMP

 

 

 

 

ottobre 24, 2016

The answer is burping in the wind

papa20e20dylan7281Cari amici, continuo a leggere manifestazioni di ammirazione per Bob Dylan che non risponde agli accademici svedesi che gli hanno assegnato un Premio Nobel per la letteratura. Lo so che è bella, l’immagine di questa combriccola di vecchi intellettuali svedesi che cercano affannosamente Bob Dylan al telefono senza ottenere risposta. E’ una immagine molto appagante, ma non fraintendetela. Non mitizzate Dylan in senso eroico. Bob Dylan non è Ken Loach. Non è Boris Pasternak. Non è Jean Paul Sartre. Il gesto di Dylan non sarà una protesta contro la globalizzazione, contro le guerre, contro i muri che limitano i flussi dei migranti, contro lo strapotere della finanza, contro Trump.

Quando fu invitato al XXIII Congresso Eucaristico, a Bologna nel 1997, Bob Dylan ci andò di corsa, e fu un vero shock per me vederlo inchinarsi davanti al papa. Uno che aveva coperto pedofilia, taciuto scandali, tollerato ingiustizie. Uno che aveva stretto la mano a Pinochet. Ma dov’erano finite le sue idee sul progresso e sulla giustizia sociale? Sugli emarginati, sui poveri della terra. E dire che quando hanno annunciato il Nobel a Dylan, alla fine, tutto sommato, per via delle splendide motivazioni, ero anche stato d’accordo.

Ma i premi si possono ritirare. I premi si possono rifiutare. I premi si possono dedicare. I premi si possono girare a qualcun altro. Ma un artista non può mai e poi mai ignorare un premio.

Il silenzio senza motivazioni di Mr. Zimmermann, non può essere spiegato altrimenti che con la spocchia di un vecchio capriccioso artista, che rutta in faccia a tutti i suoi predecessori, e soprattutto a chi se lo sarebbe meritato più di lui, la sua idea di rivoluzione a caviale e champagne.

giugno 23, 2016

Italie-Irlande : à la tienne, Roddy Doyle !

 

Stadio di Lille, 23/06/2016 – Italy Vs. Ireland.

E’ che l’Italia non ci è abituata a certe situazioni, dai diciamocelo chiaro fin da subito. Presentarsi all’ultima partita con la qualificazione già in tasca, da primi del girone. Ma quando mai si è visto. Noi italiani ci troviamo a disagio nel ruolo di secchioni, primi della classe. Senza nemmeno un complotto dei poteri forti, solo una passeggiata di salute e quella triste, teutonica classifica a punteggio pieno.

Parte l’inno italiano. I tifosi irlandesi si alzano in piedi e iniziano a cantare, inventandosi le parole come facciamo noi con le canzoni degli U2 o dei Cranberries. E’ un momento molto bello, un gesto privo di retorica che subito, noi italici, fatichiamo a decodificare, ci spiazza. Ma perché cristo perché?

L’Europeo potrebbe finire qui, non c’è nulla da aggiungere. In certi momenti pare che alcuni tifosi della marea verde azzecchino più parole giuste del nostro capitano Bonucci.

Signore e signori, inizia Italia-Irlanda, il derby di Ellis Island, New York.

Per la prima mezz’ora, Antonio Conte ripete instancabilmente uno-due, uno-due, mimando con le mani un macellaio che taglia una bistecca, o uno alle prime armi che fa massaggi shatzu. I nostri giocatori non lo capiscono. Barzagli e De Sciglio si guardano cercando conforto uno nello sguardo dell’altro. Intanto gli irlandesi si vede che hanno più motivazioni di vincerla sta partita. A noi italiani non va giù sta smania di finire a punteggio pieno il girone. E cos’è? Cosa ci si guadagna? Vada per la fatica di capire le regole della classifica avulsa, ma a capire sta cosa del prestigio proprio non ci arriveremo mai.

Gli irlandesi corrono e picchiano. Alcuni, a dire il vero pare abbiano delle caldaiette al posto dei piedi, fanno dei controlli del pallone da brivido. Però il calcio dice che a volte le motivazioni valgono più delle qualità tecniche in campo. Ed è per questo che noi italiani non si tocca palla.

Gli spalti sono pienissimi.La marea azzurra, tanto invocata dalla Federazione Italiana Giuoco del Calcio non c’è stata. Qualche macchia azzurrina, celeste, ciano, bluette, sparsa qua e là e niente di più. Forse siamo poco più su dei numeri della statistica. Forse quelli con la maglia azzurra sono dei ciprioti che casualmente indossano una maglia azzurra.

Quando i nostri tifosi sono stati raggiunti dall’appello erano ormai partiti da casa. Erano già in roaming internazionale. Addosso, e nel bagaglio a mano, avevano solo polo Lacoste o Ralph Laureen dalla tinta tenue, tipo pesca, ciclamino o giallo senape.

Tra gli spettatori passano degli addetti dello stadio, selezionano quelli vestiti di azzurro, li raggruppano sulle gradinate e li fanno passare al maxischermo per par condicio cromatica. Qui a Euro 2016 la parola d’ordine è pari opportunità. Ho visto con i miei occhi uno che si ritrovava sul maxi schermo con la maglia di Schillaci che si copriva il volto. – Figura di merda – diceva il suo labiale, mentre si teneva la testa tra le mani.

Inizia il secondo tempo e la musica non cambia. Irlandesi assatanati, italiani timidi.

Vista la schiacciante predominanza del verde irlandese sugli spalti, gli addetti della Federazione passano distribuendo magliette azzurre, costringono i tifosi ad indossarle, anche quelli che protestano perché sono di tessuti acrilici e fanno le scintille. Altri perché gli si spiegazzano tutte le polo.

Antonio Conte, promotore dell’iniziativa “operazione #marea azzurra”, fa chiedere alla regia di Sky se si possono anche solo ritoccare le immagini televisive con dei filtri tipo Paintbrush e fornire al paese a casa tutta un’altra immagine di compattezza.

Mi viene in mente tutta una bella cosa da scrivere sulle affinità e sulle diversità tra italiani e irlandesi per commentare uno zero a zero finale, ma ad un certo punto, a qualche minuto dalla fine l’Irlanda segna, e lo stadio esplode. A vedere tutti i suoi tifosi in lacrime per la gioia mi prende un groppo in gola.

L’Irlanda passa il turno grazie ad una serata eroica, indimenticabile.

Noi si passa primi di girone non per merito, ma per una tanto pusillanime quanto confortante differenza reti.

Tutto torna.

Mi apro una birra.

Alla salute, Roddy Doyle!

Massimo Miro

novembre 27, 2015

Show all this to the world – appunti di visione

00091.MTS_.Still001.png

Giugno 2015. Frontiera tra Italia e Francia. Un gruppo di migranti africani, respinto al confine con la Francia, occupa gli scogli sul mare e chiede a gran voce la possibilità di proseguire il proprio viaggio verso i Paesi del Nord, diventando in poche ore il caso simbolo dell’emergenza profughi in Europa.

Inizia così, con la sinossi presa dal programma del 33mo Torino Film Festival il giorno di Andrea Deaglio alla frontiera di Ventimiglia. Non annoierò prima me stesso e poi voi, cercando la collocazione corretta di Show all this to the world tra reportage, documentario, inchiesta, film documentario e via dicendo.

This are true stories, dice la pagina web di MUFILM, e anche questa ultima produzione, come le precedenti, lo fa capire dalle prime sequenze.

Lungomare di Ventimiglia all’alba. Centinaia di migranti dormono sugli scogli. Attorno a loro, agili, scattanti, silenziosi, decine di foto reporter rubano immagini ai loro corpi immobili, insistono su piccoli poveri particolari. Piedi che escono da coperte improvvisate, scarpe capovolte, resti di un pasto su un piatto di plastica. Cercano inquadrature ad effetto in equilibri precari tra uno scoglio e l’altro, si incrociano tra di loro.

Questa prima deprimente sequenza ci impone la prima riflessione. Qual’è il confine tra testimonianza e intimità? Può uno stato di cronaca sospendere il diritto alla dignità? In quei minuti di sequenza muta, scandita solo dal rumore delle onde che si infrangono sugli scogli e di quello degli otturatori delle reflex, non sembra esserci dubbio. No. Ma poco dopo, quando un ragazzo, trascinato a forza dalla polizia, cerca l’inquadratura, e urla al cineoperatore “Show all this to the world!”, tutto cambia, il parallelepipedo ruota, come un gioco di posizioni.

La macchina fotografica diventa elemento di garanzia, un dispositivo di protezione, tanto da farci chiedere, da qual momento in poi, se siamo certi di assistere alla rappresentazione della realtà. Quella realtà sarebbe stata tale anche senza la presenza di tutti quei giornalisti? Può lo strumento deputato a rappresentare la realtà, determinarla?

Ciò che mostra Show all this to the world, al di là della sua carica emotiva, è un retrosguardo, impietoso, sui mediatori della verità, sui mass media. Quello che vediamo, che leggiamo, quello che sappiamo, è quasi sempre un compromesso al ribasso. Il modello narrativo di questo film, senza commenti, senza didascalie, è invece il più efficace possibile. E’ come cogliere una mela dall’albero invece che comprarla liofilizzata al Carrefour.

Ho visto, come tutti voi, quest’estate, decine e decine di servizi dal confine di Ventimiglia, ne ho letto le cronache sui giornali, sui siti indipendenti. Ma niente è stato tanto efficace quanto i cinquanta minuti di questo film. La verità non è mai davanti a noi. E’ sempre dentro l’immagine che vediamo. Avere gli strumenti culturali per saperla decodificare fa la differenza tra vivere in un mondo libero o altrove.

L’unica verità possibile è negli sguardi smarriti di quei popoli di passaggio, come diceva Luca Rastello, con il confine addosso. Negli esercizi quasi pugilistici del giornalista davanti alla telecamera, qualche secondo prima della diretta di un programma di intrattenimento generalista. Nel battibecco tra un poliziotto e un reporter, che si intralciano a vicenda, ed entrambi rivendicano di essere sul posto di lavoro. Nel sottofondo di un giocattolo con il suono della tromba, suonato da un bambino con un sorriso orgoglioso, nonostante tutto.

E’ nei cori instancabili, che fanno da sottofondo costante alla narrazione senza colonna sonora, senza voce fuori campo.

Fateci passare. Non torneremo indietro.

L’oscurità avvolge gli scogli e le sagome dei migranti vengono inghiottite dalla notte. Sullo sfondo, le luci della costa francese, solo un altra tappa del viaggio.

In mezzo, un confine, tracciato a volte a matita a volte a penna.

 

M.M.

TFF33 – Cinema Massimo 2  – 27/11/2015

Un film di Andrea Deaglio | montaggio di Enrico Giovannone | post-produzione audio di Niccolò Bosio

http://www.torinofilmfest.org/film/25179/show-all-this-to-the-world.html

http://www.mufilm.it/show/

 

agosto 6, 2015

Colazione su marte – Provini notturni 23/7/2015

NASTRI

Clicca sull’immagine per ascoltare i nastri in audio streaming

Colazione su marte è la mia vecchia scatola di biscotti.

Tonda, con il coperchio sformato dalle nostre dita impazienti e maldestre al mattino. Dentro ci ho messo le fotografie che in questi ultimi mesi ho scattato a vite, cose, luoghi. Sono fotogrammi scelti tra milioni che ho visto, vissuto e che ho visto vivere. Almeno, per quanto ho creduto. Mi è sempre sembrata l’unica verità possibile. Attimi che ho ritenuto di straordinaria bellezza, ma anche attimi di intima e seriale quotidianità.

Forse è vero, tutto ciò (scrivere, comporre, disegnare ecc..)  risponde alla necessità di consolare lo stupido terrore di dimenticare, o forse di dire in un altro modo quello che si potrebbe dire con una torta alle spezie o con un passo di danza sospeso nel vuoto.

Ma c’è sempre la ricerca di quel punto di equilibrio che ti sgrava di ogni peso. L’attimo magico in cui perdi quasi coscienza, o forse la acquisisci totalmente. Come avere il conforto di tutte le risposte che cercavi. O forse ritrovarsi senza, quelle domande, senza l’assillo della risposta.

E’ l’amore, il filo rosso che unisce gli otto fotogrammi. Scatti rubati in metrò, alle stazioni, sui treni, negli ipermercati, ai semafori.

Quelli ostinati, controdestino, da decidersi in un’ultima gara in giappone sotto al diluvio come ai mondiali di formula uno.

Quelli andati a male, per colpa di una cieca e furiosa lotta ai conservanti.

Quelli tramontati nella monocromia rossa del fuoco e della lontananza eterna dei pianeti con le loro spaventose forze in gioco.

Quelli segreti, scritti in biglietti piegati a metà.

Quelli che si dimostrano in un silenzio davanti al mare, senza chiedersi nulla, solo a guardare navi lontane e direzioni che portano via.

Quelli promessi per l’eternità, ma che poi finiscono e rimangono destinati ad essere ricordati nelle canzoni.

Quelli delle metà e degli interi. Dell’incanto della vicinanza.

Quelli di un tulipano tenuto in tasca, in attesa di un incontro.

Ma non c’è spazio per i rimpianti o per le illusioni.

I tulipani sono fiori di una bellezza struggente e fragile, che possono vivere solo in un tempo.

Il presente.

Riprese effettuate la notte del 23 luglio 2015 allo Spazio 211, Torino.

Disponibili in audio streaming su Soundcloud.

https://soundcloud.com/colazionesumarte/sets/nastri-rigorosamente-notturni/s-kwcXv

csm def2

Pianoforte: Massimo Miro

Voce: Sined

Chitarre in Colazione su marte: Rick Spence, Kevin Lodgers.

Testi e musica: Massimo Miro  – Happy Intentions Songs 2015 – All rights reserved

Maggio 11, 2015

Di S orD er – prodromi di scrittura

beatiful minds

Non è stato facile concepire un altro mondo dopo Borgo Stura. Tutto mi riportava lì, come se l’immaginario seguisse solchi profondi, tanto è ancora vibrante e forte, sollecitato e autonomo, il riverbero di quella storia fuori dalle pagine. Sono stati tre anni di letture e riflessioni. Soprattutto riflessioni intorno al ruolo del romanzo nella letteratura contemporanea, e più in generale nella contemporaneità. A chi importano ancora le storie? O meglio: a chi importa leggerle se io le scrivo?

Se è vero che l’artista affida al gesto creativo la sua intima visione del mondo, è vero, che egli dipinge sempre lo stesso quadro, compone sempre la stessa canzone, scrive sempre la stessa storia.

Se questo è vero allora tutto è replica, serigrafia, ostinata perlustrazione di substrati sempre meno densi che costringono l’edificazione di strutture e contenitori per sorreggere e contenere materiali senza consistenza, che diversamente non avrebbero forma indipendente quindi bellezza.

Odio quando la tecnica diventa solo uno strumento per dissimulare la serialità. Quando le parole, le immagini, i suoni, le armonie sembrano scritte per consolarci, mentre ci viene nascosto che stiamo assistendo al risultato di un ciclo di produzione. Scrivere, leggere. Comporre, ascoltare. Disegnare, guardare.

Allora ho voluto sottrarmi all’idea di provocare quella sensazione agli altri, la sensazione che io stia per dire la stessa cosa che avevo già detto, ma in un modo diverso, o ricomponendo la stessa voce, lo stesso io narrante, anche affidandogli cose diverse da dire e fare, ma con la stessa tonalità e cadenza. Non avevo nessun contratto che mi ingiungesse a farlo, ed ero pronto a non farlo più.

Per tornare in qualche modo ad uno stato primordiale, completare il processo in senso inverso e ritrovare la materia originaria, senza segni di plasmatura pregressa, ho dovuto lasciare passare un periodo di tempo diciamo refrattario, creando uno spazio di decantazione.

Ho pensato alla visione di letteratura che ci hanno lasciato in piccole tracce alcuni immensi autori.

Wallace Foster David, quando conclude uno dei suoi ultimi racconti con questa perentoria frase: “Non una parola di più”. Come se dopo ogni finale di storia vi fosse il nulla? Come se la storia finisse lì, e non ci fosse altro modo per raccontarla? Come se ogni parola in più fosse una ripetizione, quindi di troppo? Una lezione di onestà? Una dichiarazione di resa?

A proposito di lezioni, Italo Calvino, nel suo Lezioni americane, quando dice che “La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibilità di realizzazione”.

L’ambizione più grande per uno scrittore, per Flaubert era quella di riuscire a scrivere un romanzo sul nulla. Per altri autori come Borges, Goethe, e soprattutto Perèc, l’ossessione si concentrava sulla rappresentazione del modello dell’universo in ogni suo codice finito o indefinito, nella sua “indistricabile complessità”. Ma esiste un modello di universo, e se esiste, è riproducibile? E’ conciliabile con le misure della letteratura? O esso ci riporta al punto di partenza perché di fronte ai limiti dell’intelletto ci impone comunque la stessa approssimazione che applichiamo nella vita reale, ogni giorno. Facendo finta di credere cioè, che ogni cosa abbia un inizio ed una fine. Che ogni cosa immaginabile punti verso un infinito ignoto o torni ad un punto di partenza.

Imbattersi in questa ambiziosa ricerca, non è quindi destinarsi fatalmente all’incompiuto, all’indecifrabile?

Ed è con queste gigantesche domande sospese, che dopo tre anni di silenzio, sguardi nel vuoto, sobbalzi emotivi, apatia, appunti lasciati ovunque, ho iniziato a scrivere Disorder, nel suo nucleo germinale, senza partire né dai personaggi, nè dai luoghi, né addirittura dalla trama.

Quanto vale, in termini assoluti, la vita per come la viviamo, rispetto alla percezione che gli altri hanno di noi? Abbiamo il controllo sulla nostra vita? E se un giorno, per caso, giocando pericolosamente con queste riflessioni e con esperimenti che coinvolgono il tempo, scoprissimo che la nostra vita, con la sua galassia di eventi grandi e piccoli, non è semplicemente un succedersi di eventi governato da un flusso caotico e imprevedibile, ma il verificarsi puntuale di un disegno?

Venire a conoscenza di quel prezioso codice, avvicinarsi al divenire senza nominarlo mai, affiancarlo, superarlo, comprenderlo. Tenerlo in pugno.

Che i nostri pensieri, le nostre emozioni, non costituiscano in qualche modo materia, non è in fondo, ancora oggi, una teoria inspiegabile?

E’ un viaggio entusiasmante. Spero di portarvi presto con me.

MM

Torino, maggio 2015

agosto 18, 2014

Berlino e il vuoto rimosso

La Germania dell’Ovest era forte, vincente. Ci giocavano Muller, Breitner, Beckenbauer. Avevano le maglie bianche, erano star internazionali. Poi nell’album dei mondiali c’era la Polonia di Lato e Deyna, c’era la Yugoslavia, c’era l’Olanda di Neskens e Crujff, c’erano squadre con le bandiere, gli stati, i confini, i popoli.

I giocatori della DDR, invece, avevano nomi anonimi, con le loro maglie celesti e la scritta bianca. Avevano le tute sgualcite e stinte, un po’ da sfigati. Li trovavo tutti goffi e dimessi, malinconici, ma incredibilmente misteriosi. Era come se arrivassero dal nulla, da un angolo sperduto della storia d’Europa, e tutto ciò mi affascinava tantissimo. E’ allora che è iniziato il mio viaggio verso Berlino.

A Berlino non vi è nessun monumento o scorcio che di per sé generi emozioni particolari o almeno, questa è la mia sensazione. Berlino è più di ogni altra cosa la città dagli immensi volumi mancanti, e si è sviluppata in modo anomalo, rispetto ai modelli urbanistici delle metropoli. Lancinanti ground zero di vuoto giacciono disseminati in un profondo ed eterno silenzio, in attesa di essere colmati dal 1945. Talvolta in luogo delle immense depressioni create dai bombardamenti, sono state edificate volumetrie disumane che si possono comprendere solo se le si considerano l’ombra della bandiera sovietica che sventola sulle rovine del Reichstag: una punizione dei vincitori sui vinti.

I volumi di Berlino (quelli mancanti, quelli ricostruiti, quelli rimossi), raccontano la grande follia umana del Novecento. Dresda fu ricostruita mattone per mattone con fedeltà fotografica rispetto all’originale, e quella fu un’esperienza di totale rimozione del passato. Ma a Berlino ricostruire non poteva significare ripristinare. Il tragico passato non si poteva rimuovere, doveva essere per sempre un monito, ed è stato l’architetto urbanista al quale è spettata l’ultima parola.

14 16

A Berlino i luoghi più suggestivi sono quelli silenziosi. Ascoltare il fiume Spree scorrere, o passeggiare per le vie deserte del Kreutzberg la domenica mattina, dove Friedrichstrasse parte da Mehring Platz. Del muro originario rimane poco o nulla. Del muro rimangono le due metà di mondo che esso ha diviso, ancora oggi e per sempre leggibili. Potzdammer Platz , con i suoi centri commerciali avveniristici, gli investimenti immobiliari arrivati a superare i 50 miliardi di dollari e Alexander Platz, una serie di cubi in cemento armato senza niente di umano nella forma e nel colore. Entrambi luoghi dal grande fascino simbolico, due luoghi speculari che hanno plasmato il vuoto con il plastico di una proposta sociale al mondo, come fossero le rispettive, opposte risposte alle grandi domande di benessere e pace che la storia aveva lasciato in sospeso dopo la seconda guerra mondiale.

Se oggi Berlino è la migliore sintesi tra diritto all’individualismo e dovere di solidarietà, è perché Berlino è una delle metropoli più accessibili del mondo. Fatta eccezione per la zona del Mitte, il prezzo per metro quadro di una casa a Berlino è ancora oggi di gran lunga inferiore rispetto alla periferia di una qualsiasi grande città europea. Tutto è un linguaggio di passaggio, dalla street art all’architettura avveniristica, alla giungla di culture e controculture che si confrontano con vorace frenesia pop.

Ben governata, ecologica, ciclabile, tollerante, interclassista, multietnica e multiculturale, Berlino ha polarizzato immense energie e un benefico desiderio di riscossa, non solo per il popolo tedesco, ma per chiunque creda in un progresso equo e sostenibile.

Questa è stata la mia sensazione, ed è quello che mi porto a casa in direzione Praga.

Il viaggio in auto verso Praga è relativamente breve, rispetto all’eternità del viaggio da Torino a Berlino. Circa quattro ore di un’autostrada che percorre campagne rigogliose e dolci vallate verdi a perdita d’occhio senza soluzione di continuità.

Non sembra possibile che sia esistito un confine geografico tra Prussia e Austro-Ungheria, ma solo un confine artificiale tra i popoli. Giungere a Praga da Berlino ti fa pensare a quanto spesso le città somiglino alle sparute dinastie di nobili che le hanno governate con i loro capricci nel corso dei secoli e ne hanno determinato il destino, umano e topografico. I concetti di Est e di Ovest sono stati degli astuti diversivi. Una grande distrazione di massa che oggi ha consentito nuovamente la concentrazione del potere in mano a poche famiglie, che indisturbate, nell’ombra, senza castelli, senza dittature, senza muri, né di divisione né di difesa, hanno nuovamente in mano le sorti di interi continenti.

Lasciata Dresda alle spalle, appena giunti in Repubblica Ceca la strada ti regala anche un fuori percorso obbligato (l’autostrada finisce) in un paesino sperduto nel nulla della campagna. In una piccola piazza con un trattore su un lato e un furgone scassato dall’altro, tre donne e un uomo ti fissano immobili come se ti avessero aspettato per tutta la vita. Un piccolo regalo, che apprezzi però solo dopo aver ritrovato l’autostrada in direzione Praga, perché durante l’excursus ti senti improvvisamente sperduto nel nulla, inghiottito in un fosso al centro dell’Europa.

Praga è una città di una bellezza così densa, intatta e perfetta, che ogni altra città visitata dopo sembrerebbe una periferia blanda e disadorna. Su Praga è stato già scritto tutto, quindi il mio viaggio finisce qui, in questa incantevole città rimasta intatta nei secoli.

Con un piede sul ponte Carlo, tra la città vecchia e il castello.

Dentro alla bellezza, che salverà il mondo.

dicembre 7, 2013

Voci e parole. Processi inversi

7/12/2013 – Altri Sguardi – 

Dicono che le storie prendano vita quando da manoscritti, o da semplici idee diventano libri. Se questo è vero, allora la storia della faglia è nata una seconda volta, perchè è tornata alla voce, cioè la forma con la quale mi era apparsa guidando l’auto, reggendomi in curva su un pullman, ascoltando il silenzio della notte. Allora non feci altro che trascrivere quella voce su fogli di fortuna, niente di più, e mettere insieme tutto in forma di parole, punteggiatura. La voce è una forma viva, pulsante.

In questo strabiliante processo inverso, Renato Camoletto, Roberto Micali, Renato Sibille, Igor Casella e Fabio Liberatore, danno la parola agli spazi, alle virgole, agli a capo. Danno il silenzio, l’espressione, il movimento, alle parole. Stasera è stato un onore, ancora una volta.

Grazie Artemuda.

MM

artemuda_artemuda_