Le commedie rosa degli anni sessanta sono quelle che più si avvicinano alla mia idea platonica di piacere. Se mi sentite dire che su un’isola deserta mi porterei dietro Guerra e pace, quasi sicuramente mento o non la racconto giusta. Sì ok, un libro me lo porterei (e probabilmente non sarebbe quello di Tolstoj), ma di sicuro nello zaino ci sarebbe anche un televisorino mignon e una gamma completa di commedie vintage. Da “Irma la dolce” a “Ero uno sposo di guerra”. Ce n’è una ad esempio, sulla cui visione mi plafono a scadenze regolari, che si chiama “Il letto racconta”.
I protagonisti sono una Doris Day molto elegante, e un Rock Hudson molto play boy. Sono vari i motivi per cui con questa commedia mi sbrodolo di compiacimento. Un po’ per i dialoghi, un po’ per i colori pastello degli arredamenti, un po’ per il come veniva fasciato il punto vita dagli abiti dell’epoca, ma in special modo per il protagonista assoluto della storia: il telefono. Sì esatto, quell’aggeggio demodé, che aveva la rotella e una cornetta senza spigoli, che dopo un quarto d’ora che la tenevi in mano, ti sudavano l’orecchio e le dita.
Il mio grado di soddisfazione, raggiunge l’apice a partire dalla sigla, perché viene fatto uso e abuso di una tecnica cinematografica che voi probabilmente ricorderete di più in altri film. Lo split screen. La divisione dello schermo che ti mostra cosa succede contemporaneamente in luoghi presumibilmente diversi.
La scena però, su cui mi adagio mollemente e raggiungo il massimo di compenetrazione empatica coi protagonisti, è quella in cui la divisione delle inquadrature li mostra immersi nelle rispettive vasche da bagno mentre si parlano al telefono. Giocando distrattamente coi piedini toccano il punto di separazione dello schermo, e qui lo split screen ci regala un’illusione cinematografica deliziosa, quella per cui ciò che li divide allo stesso tempo li unisce, perché a noi spettatori pare che i piedi si tocchino. Insomma, è più facile a vedersi che a spiegarsi.
Ecco, se Thomas Mann dovesse raccontarvi sinteticamente cos’è La faglia, direbbe che due generazioni si porgevano le mani, in una specie di chassé croisé. Se lo dovessi fare io direi che è come lo split screen ne “Il letto racconta”. La faglia, quel crepaccio su una via periferica di Torino, insidioso pericolo per il Garelli di una squinternata combriccola di ragazzi, rappresenta, attraverso il salto a cui ti costringe, anche il punto di contatto tra due mondi, quello dell’adolescenza piena nel modo di sentire, e quella degli adulti alla vana ricerca di una finta felicità esteriore. Quella tra l’Italia di ieri dove l’illusione di poter salvare Aldo Moro dal sequestro (e qui mi è stato impossibile non ricordarmi della Banda degli invisibili di Bartolomei) sembrava lo sbocco più logico per essere parte della Storia, e l’Italia di oggi, lontanissima dai valori di un tempo. Gomez, protagonista del percorso a ritroso, è sul crinale di quel crepaccio che rappresenta il bilancio della sua vita, e se per noi è adrenalinico fare il salto della faglia con lui, allo stesso tempo ci ricorda una poesia di Machado dove “nel voltare indietro la vista, si vede il sentiero che mai si tornerà a calcare. Viandante non c’è via ma scie di mare”, e non serve certo che sia io a dirvi, quanto facile sia, perdersi nelle scia delle proprie emozioni.
vai all’articolo orginale dal Blog pleonastico di Noce Moscata. Una gustosa divagazione in pieno stile off topic.
http://lespugnenonhannogiornateno.blogspot.it/2013/03/provammo-dei-sentimenti-ignorando-il.html