Archive for ‘i liBri dei vicini’

marzo 25, 2020

Quando un romanzo è per tutti. La gioia fa parecchio rumore – Sandro Bonvissuto

9602726_4419826Non ha un nome, il personaggio narrante di La gioa fa parecchio rumore, splendido romanzo sulle grandi passioni che scuotono l’albero dell’animo umano. Non ha un nome perché quel nome dovrebbe essere composto da tutti i nostri, uno in coda all’altro, allora quel nome sarebbe talmente lungo che occuperebbe tutto il romanzo, perché non fatevi ingannare dalle apparenze, il centro di questo romanzo non è calcio. Questo è un romanzo sull’amore e per l’amore, visto con gli occhi disarmanti dell’innocenza, con il pretesto di una incrollabile fede calcistica, Sandro Bonvissuto ci svela uno dopo l’altro meccanismi che fino a poco prima ci sembravano complicatissimi. Riesce a farlo come serve, a volte con il disincanto, a volte con il linguaggio di quella romanità popolare monicelliana, diretta e irresistibile. “ I romani sanno essere terribili, i romanisti ancora di più”. Una città che è capace di portarti continuamente dal paradiso all’inferno, nel cantico delle tribune dal quale partono dichiarazioni di devozione assoluta e gesti di irriverenza dissacrante, basta un passaggio sbagliato perché si commenti “quello ci’ha a visione de gioco de ‘na staccionata!” e poi l’azione successiva, per un dribbling riuscito “aò, te l’avevo detto che è ‘n fenomeno

Non hanno un nome nemmeno gli altri protagonisti, sono solo padri, zii, madri, vicini di casa, figure che ci sembrano subito familiari, con la loro filosofia semplice e immediata, sono entità onniscienti, anime di una vivace epica borgatara dei primi anni ottanta, ricostruita con fedeltà assoluta. Non è mai chiamato per nome, nemmeno il protagonista per antonomasia, quello in copertina, il “forte centrocampista” venuto dal Brasile per prendere in mano le redini del destino, non solo di una squadra di calcio, ma di un popolo intero, quello pervaso dall’amore incondizionato per una maglia, fiero nella sconfitta e quasi più a suo agio “nella parte destra delle classifica” che non nei panni del vincitore. Quello straniero accolto all’aeroporto da una moltitudine già in festa, arrivato dalla città con ogni mezzo, tra canti, bandiere e panini con la frittata. Quello straniero che scese dall’aereo con così tanta sicurezza, “che pareva lui er pilota”.

E’ quella, la gioia che fa parecchio rumore. Prima ancora di quella per la vittoria tanto attesa, quella che verrà, la gioia di quel popolo chiassoso e colorito è quella più autentica e universale: quella per l’orizzonte della riscossa. E’ una gioia che non ha colori, maglie e stemmi. E nemmeno nomi.

Qualunque fervente passione infuochi la vostra anima, questo libro è per voi.

 

La gioia fa parecchio rumore” – Sandro Bonvissuto

Edizioni Einaudi 2020.

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/la-gioia-fa-parecchio-rumore-sandro-bonvissuto-9788806217723/

marzo 27, 2019

“Quella metà di noi”. Oltre il gioco del doppio. Una sera con Paola Cereda, 26/3/2019

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Matilde Mezzalama è una maestra in pensione che decide, invece di godersi la sua tranquilla vecchiaia nel quartiere periferico di Barriera di Milano, a Torino, di rimettersi in gioco e accettare di accudire un anziano ingegnere che abita nel centro della città.

E’ questo l’elevator pitch 1 de “Quella metà di noi, l’ultimo romanzo di Paola Cereda, titolo che stramerita di comparire tra i 12 finalisti dell’ambitissimo Premio Strega 2019.

Il tema del corpo involucro, della sua cura ai fini della sopravvivenza, è un argomento di grande attualità. Il rapporto tra Matilde e l’ingegnere, è il prisma narrativo principale di questo romanzo, e se scelta è stata, l’autrice non poteva fare scelta più efficace. Nel rapporto stesso tra “badante” e “badato”, in quel compromesso emotivo si può già individuare l’elemento della metà per antonomasia, replicata in diverse accezioni: Il prima e il dopo l’infermità, l’accudire la casa del malato per poter accudire una casa dall’altra parte del mondo, in una sorta di remotizzazione e sdoppiamento del prendersi cura.

IL GIOCO DELLE META’. In questo romanzo ogni personaggio si confronta con una sua metà ad assetto variabile, più o meno inconsapevole. E’ questo l’aspetto che sorprende e appassiona il lettore, perché il grande merito di Paola Cereda è quello di avere creato personaggi universali, nei quali chiunque può riconoscere chiunque. Altro pregio raro di questo romanzo è l’essere andato ben al di là dell’esperienza del visconte dimezzato o dell’uomo duplicato, o di tutte le altre esperienze narrative precedenti che hanno esplorato la suggestione del doppio.

Ma allora, cosa spinge realmente Matilde ad imbattersi nelle fatiche di un nuovo mestiere che non le appartiene?

E’ quindi la verità, la palla di cannone che spezza in due quasi tutti i personaggi di questo romanzo? O è un segreto ben custodito? Un segreto come quelli che abbiamo tutti, e che determinano altre vite rispetto a quelle che abbiamo. Le parole mai dette sono come figli mai nati.

Un ruolo di primo piano nella ricerca di quella metà spetta ai LUOGHI. Il passaggio dalle ambientazioni in provincia (nei lavori precedenti di Paola) a quella in città tiene molto bene grazie ad un evidente vissuto, alla capacità di adattamento del linguaggio e dei ritmi narrativi. Rispetto ai lavori precedenti Paola Cereda, con grande sensibilità, smonta grandangolo e filtro colorato dal suo obbiettivo. Anche i tempi di esposizione cambiano. Quello che leggiamo è la conseguenza di uno sguardo più lento, dentro allo scorrere quotidiano, con una messa a fuoco più nitida, senza rinunciare all’ironia dal sapore spesso malinconico, nella descrizione di una Barriera di Milano per quella che è oggi, pulsante e multietnica. Nella toponomastica e nella trasformazione degli esercizi commerciali.

Alcune pagine particolarmente suggestive sono quelle ambientate al Banco dei Pegni, ricalcando, ma andando già oltre, in una sola manciata di pagine, il lavoro matrice di Elena Loewenthal nella sua “Giornata al Monte dei Pegni”. Quando entri al Monte dei Pegni devi essere disposto a lasciare qualcosa di te, e contemplare un riscatto. Separarsi da un oggetto personale che viene pesato, valutato, trasformato in valuta. Un luogo popolato da personaggi fuori dalle righe che l’autrice rende memorabili, tra leggenda e ironia.

Ma il ruolo di luogo protagonista spetta senz’altro al tram numero 4, linea tramviaria che collega la periferia nord di Torino a quella sud, passando per il centro. Un microcosmo viaggiante che può contenere vite a capienza praticamente infinita.

Abbiamo tante vite quante sono le persone che incrociamo, ogni volta la nostra vita  potrebbe cambiare. La scelta è nostra.

Stare sul tram numero 4 è in fondo come viaggiare per il mondo, attraversando una sola città, venire a contatto con l’umanità più assortita, contenitore di storie che precedono sempre l’immaginazione. Non quella di Paola.

Quella metà di noi – Paola Cereda – Giulio Perrone Editore

26/3/2019 Libreria Il Gatto che pesca – San Mauro Torinese (TO)

 

MM

settembre 13, 2017

Polesine. La nostra Amazzonia in cortile

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Non lo so nemmeno io, perché ultimamente mi sono appassionato così tanto alle terre del Delta del Po.

Io che sono sardo e per noi sardi acqua e terra sono due componenti ben definiti da adorare e temere in misure ben certe e contrapposte. Ma io sono sempre stato attratto da tutto ciò che è sospeso nel tempo, a tutto ciò che oppone resistenza al cambiamento. A tutto ciò che è immobile, ed è. Esiste. A dispetto della modernità, delle cose che cambiano. Una silenziosa opposizione alla truffa.

Viviamo in città sempre più caotiche, frammentate da nuove geografie funzionali che le isolano dall’esterno. I centri sono entità a parte, hanno una loro identità specifica, mentre le periferie sono tutte uguali. Queste nuove geografie funzionali (per non chiamarle cicatrici) sono descrivibili solo per la funzione che svolgono, che quasi mai è quella di piacere, ma solo di trasportare, collegare, realizzare spine, passanti, tunnel metropolitani, oppure per ricucire ferite del passato, perpetrando però gli stessi errori, come ricalcare vecchi tracciati ferroviari, il tutto chiamato con nomi leggiadri ma fuorvianti, troppo belli per ciò che rappresentano. Sono proprio questi, quelli che l’antropologo francese Marc Augé chiama “non luoghi”.

Il Polesine è certamente (diventato) l’archetipo dei non-luoghi italiani; una vasta depressione tra due grandi corsi d’acqua, avvolta da una nebbia chimica quasi eterna, sotto al livello del mare. Un territorio dai confini variabili a piacimento della natura.

Il Polesine è un posto dove da sempre è difficile vivere. E famoso per le alluvioni, per essere sempre stata terra di emigrazione, come un Sud incastonato nel nostro profondo e industrializzato Nord. Un luogo deve avere tre caratteristiche essenziali: essere identitario – in grado quindi di individuare l’identità di chi lo abita – essere relazionale – stabilendo una reciprocità dei rapporti tra gli individui funzionale ad una comune appartenenza – essere storico – mantenendo la consapevolezza delle proprie radici in chi lo abita. Il Polesine non è niente di tutto ciò.

Due libri hanno soddisfatto la mia fame di immersione in quei luoghi attraverso le parole, in attesa di poterci andare di persona, spero presto: “Anime galleggianti”, (La nave di Teseo) di Vasco Brondi e Maurizio Zamboni. Vasco Brondi è autore e cantante de Le luci della centrale elettrica, a mio avviso il progetto più interessante della scena musicale dell’ultimo decennio, e “Confessioni audaci di un ballerino di liscio”, (Baldini&Castoldi) di Paola Cereda, una delle autrici più talentuose del nuovo panorama della letteratura italiana. Con entrambi ero già in contatto diretto, perché loro sono due dei miei artisti preferiti, con le loro opere sanno sempre come arrivare a me, cosa raccontare, con quali ritmi. Li avevo già seguiti nei loro viaggi di città, di periferia, di bassa padana, di Sud Italia e li avevo amati, sempre. Stavolta è come se si fossero messi d’accordo per portarmi in quella terra affascinante, senza nemmeno conoscersi tra di loro anche se vorrei che lo fosse, per raccontarmi cos’è la vita lì, di cosa è fatta.

Anime galleggianti è un viaggio a bordo di una zattera a motore, la discesa di un canale preso da una strada provinciale, come una porta di un universo parallelo. Da lì inizia un viaggio fino ad arrivare al mare, approdo finale. Ci vorranno due giorni di viaggio,” come andare in Australia o alle Hawaii”. E’ un viaggio tra Pescatori di frodo che appaiono all’improvviso tra le fronde, e alla vista di altri esseri umani ritraggono in fretta e furia i loro galleggianti. Stanno in postazioni ritagliate nella fitta vegetazione, attrezzate con ombrelloni e una sedia di plastica che sembrano troni aborigeni.

Ore di navigazione con gli aironi che ogni tanto condividono la strada dal cielo, la vegetazione fittissima ai lati, senza incontrare niente e nessuno, poi sfiorare il mondo civilizzato di una strada statale, vista da una prospettiva diversa, a pelo d’acqua, qualche ponte in ferro, che chissà l’ultima volta che qualcuno lo ha attraversato.

Luoghi ai margini del mondo in cui ascoltare le proprie solitudini e le proprie fantasticherie, in contemplazione dei silenzi d’acqua. Il Polesine, la nostra Amazzonia in cortile, popolata da anime sospese nel tempo, personaggi leggendari che sfidano l’inospitalità di quei luoghi fino a vincere il braccio di ferro tra resistere e desistere, stabilirsi in baracche, case, ville, roulotte, impiantare attività, impadronirsi di spazi altrimenti di nessuno, diventare alieni nel centro esatto dell’Europa, tra un Est e un Ovest mai così vicini, in nessun altro luogo.

Uno di questi luoghi, non troppo in lontananza, potrebbe essere Bottecchio sul Po, e quella casupola in mezzo al nulla il Sorriso Dancing Club, gestito da Frank Saponara, ballerino di liscio, fedele alla tradizione e impermeabile alle novità, ma anche uomo incapace di amare una donna fino alle estreme conseguenze di una vita condivisa.

Confessioni audaci di un ballerino di liscio è una storia di bilanci, di rimpianti non ammessi. “C’è da amarla questa baldracca della vita” perché ha le virtù di ogni donna che Frank ha amato. “Ci sono persone che attraversano la nostra esistenza con lo scopo di lasciare un segno”.

Alla festa dei cinquant’anni del Sorriso quelle persone ci sono tutte, una via di mezzo tra un amarcord e un giudizio universale. Scorrono come un fiume davanti ad un Frank immobile, nel suo tempo andato. Personaggi sopra le righe, eccessivi, eccentrici, o semplici fino al midollo. Una kermesse di umanità che credevamo scomparsa nel tempo, insieme alle balere con le luci stroboscopiche, i gin tonic, il ghiaccio secco, e i cravattoni.

Ma c’è qualcosa di profondo, che rende tanto autentico il personaggio di Frank e i suoi luoghi. Il fiume che scorre, l’immagine degli argini che non cedono malgrado le piene, malgrado tutto ciò che il fiume raccoglie nella sua corsa verso il mare attraversando centinaia di chilometri di terre lanciate senza freni nella modernità. «La notte mi consolai con quattro gin tonic e un classico del liscio, illudendomi di poter bastare a me stesso. Dopotutto le persone finiscono per assomigliare ai luoghi dove vivono, provavo a convincermi, e io dovevo al fiume il mio perpetuo scorrere.»

Confessioni audaci di un ballerino di liscio è prima di tutto una storia scritta divinamente bene, tanto che in alcuni momenti ti sembra di sentire la musica dell’orchestra, i profumi alcolici dell’acqua di colonia delle signore, mischiati alla polvere della pista da ballo e al sudore. All’odore stantio del fondo dei vermouth nei bicchieri.

Una avvertenza per chi vorrà addentrarsi in queste terre parallele e misteriose, tra realtà fotografica e letteratura di altissimo livello.

Il rischio è quello di rimanerci incastrati dentro. Per sempre.

 

MMP

 

 

 

 

giugno 23, 2016

Italie-Irlande : à la tienne, Roddy Doyle !

 

Stadio di Lille, 23/06/2016 – Italy Vs. Ireland.

E’ che l’Italia non ci è abituata a certe situazioni, dai diciamocelo chiaro fin da subito. Presentarsi all’ultima partita con la qualificazione già in tasca, da primi del girone. Ma quando mai si è visto. Noi italiani ci troviamo a disagio nel ruolo di secchioni, primi della classe. Senza nemmeno un complotto dei poteri forti, solo una passeggiata di salute e quella triste, teutonica classifica a punteggio pieno.

Parte l’inno italiano. I tifosi irlandesi si alzano in piedi e iniziano a cantare, inventandosi le parole come facciamo noi con le canzoni degli U2 o dei Cranberries. E’ un momento molto bello, un gesto privo di retorica che subito, noi italici, fatichiamo a decodificare, ci spiazza. Ma perché cristo perché?

L’Europeo potrebbe finire qui, non c’è nulla da aggiungere. In certi momenti pare che alcuni tifosi della marea verde azzecchino più parole giuste del nostro capitano Bonucci.

Signore e signori, inizia Italia-Irlanda, il derby di Ellis Island, New York.

Per la prima mezz’ora, Antonio Conte ripete instancabilmente uno-due, uno-due, mimando con le mani un macellaio che taglia una bistecca, o uno alle prime armi che fa massaggi shatzu. I nostri giocatori non lo capiscono. Barzagli e De Sciglio si guardano cercando conforto uno nello sguardo dell’altro. Intanto gli irlandesi si vede che hanno più motivazioni di vincerla sta partita. A noi italiani non va giù sta smania di finire a punteggio pieno il girone. E cos’è? Cosa ci si guadagna? Vada per la fatica di capire le regole della classifica avulsa, ma a capire sta cosa del prestigio proprio non ci arriveremo mai.

Gli irlandesi corrono e picchiano. Alcuni, a dire il vero pare abbiano delle caldaiette al posto dei piedi, fanno dei controlli del pallone da brivido. Però il calcio dice che a volte le motivazioni valgono più delle qualità tecniche in campo. Ed è per questo che noi italiani non si tocca palla.

Gli spalti sono pienissimi.La marea azzurra, tanto invocata dalla Federazione Italiana Giuoco del Calcio non c’è stata. Qualche macchia azzurrina, celeste, ciano, bluette, sparsa qua e là e niente di più. Forse siamo poco più su dei numeri della statistica. Forse quelli con la maglia azzurra sono dei ciprioti che casualmente indossano una maglia azzurra.

Quando i nostri tifosi sono stati raggiunti dall’appello erano ormai partiti da casa. Erano già in roaming internazionale. Addosso, e nel bagaglio a mano, avevano solo polo Lacoste o Ralph Laureen dalla tinta tenue, tipo pesca, ciclamino o giallo senape.

Tra gli spettatori passano degli addetti dello stadio, selezionano quelli vestiti di azzurro, li raggruppano sulle gradinate e li fanno passare al maxischermo per par condicio cromatica. Qui a Euro 2016 la parola d’ordine è pari opportunità. Ho visto con i miei occhi uno che si ritrovava sul maxi schermo con la maglia di Schillaci che si copriva il volto. – Figura di merda – diceva il suo labiale, mentre si teneva la testa tra le mani.

Inizia il secondo tempo e la musica non cambia. Irlandesi assatanati, italiani timidi.

Vista la schiacciante predominanza del verde irlandese sugli spalti, gli addetti della Federazione passano distribuendo magliette azzurre, costringono i tifosi ad indossarle, anche quelli che protestano perché sono di tessuti acrilici e fanno le scintille. Altri perché gli si spiegazzano tutte le polo.

Antonio Conte, promotore dell’iniziativa “operazione #marea azzurra”, fa chiedere alla regia di Sky se si possono anche solo ritoccare le immagini televisive con dei filtri tipo Paintbrush e fornire al paese a casa tutta un’altra immagine di compattezza.

Mi viene in mente tutta una bella cosa da scrivere sulle affinità e sulle diversità tra italiani e irlandesi per commentare uno zero a zero finale, ma ad un certo punto, a qualche minuto dalla fine l’Irlanda segna, e lo stadio esplode. A vedere tutti i suoi tifosi in lacrime per la gioia mi prende un groppo in gola.

L’Irlanda passa il turno grazie ad una serata eroica, indimenticabile.

Noi si passa primi di girone non per merito, ma per una tanto pusillanime quanto confortante differenza reti.

Tutto torna.

Mi apro una birra.

Alla salute, Roddy Doyle!

Massimo Miro

ottobre 26, 2013

Massimo Miro incontra Sandro Bonvissuto. DENTRO (ed. Einaudi) alla Trebisonda. 9/11/2013 h 18

dentro_9-11-3Chi mi conosce sa che non presento libri frequentemente, pur avendo tanti amici scrittori. L’ho fatto in passato solo per autori o libri davvero speciali, e questa volta lo farò per tutte e due le cose. Non solo perché considero DENTRO (ed. Einaudi), di Sandro Bonvissuto, l’esordio più fulminante degli ultimi anni, ma perché non vedo l’ora di chiedergli alcune cose. Dentro, non è solo un libro dalla scrittura fantastica, ma anche, e forse soprattutto, uno spazio che mancava, nella letteratura italiana. Mancava perché pochi, come Bonvissuto sono capaci di nasconderci l’atto meccanico della scrittura, e di farci credere che quello che leggiamo siano direttamente i pensieri dei suoi personaggi, senza la mediazione dell’autore.
9 novembre 2013, ore 18, alla Trebisonda. La libreria Indipendente di San Salvario. Via Sant’Anselmo 22. Torino.

http://www.trebisondalibri.com

ottobre 18, 2012

E se Gomez incontrasse Thomas Jay? Cosa si direbbero?

Sabato 27 ottobre ore 18,30 libreria Borgopò via Ornato 10, Torino.

Presentazione del libro Thomas Jay di Alessandra Libutti Fazi) Con l’autrice interviene Massimo Miro

Romanzo d’esordio di Alessandra Libutti, Thomas Jay è stato finalista al Premio Calvino.

Thomas Jay è uno scrittore di culto. Dal chiuso di una cella racconta la sua incredibile storia: dall’infanzia turbolenta al carcere, al riscatto attraverso la letteratura, all’amore.

Dopo un’infanzia povera ma fantasiosa accanto a una nonna rivoluzionaria e una zia amorevole, Thomas Jay viene spedito in America. A dodici anni entra per la prima volta in riformatorio; trova il modo di scappare e si rifugia nella lavanderia di Max. Maestro silenzioso e discreto, Max accende nel ragazzo l’amore per la letteratura ma soprattutto lo incoraggia a scrivere. Anche il critico Samuel Atkinson crede in lui e fa pubblicare il suo romanzo In the Dim, in the Light, destinato a diventare una pietra miliare della narrativa contemporanea. Carattere inquieto e ribelle, Thomas Jay passa l’intera giovinezza fuggendo da un riformatorio all’altro per approdare al carcere, quello vero, fino all’ergastolo. Intanto i suoi romanzi, eccezionali allegorie della vita, incantano il mondo. «Chi lo incontra firma un contratto con l’eternità», dice il professor Atkinson per mettere in guardia Ailie, una studentessa che sta facendo una tesi sull’opera del suo scrittore preferito. Ma Ailie si è innamorata di Thomas Jay prima ancora di conoscerlo e vuole raccogliere i suoi ricordi e l’ultimo, estremo desiderio d’amore.

aprile 13, 2012

Il futuro del mondo passa da qui – City Veins è anche un libro

Il futuro del mondo passa da qui – City Veins è anche un libro. Un progetto editoriale nato dopo la realizzazione dell’omonimo film documentario di Andrea Deaglio – vincitore del Primo premio Joris Ivens, Cinema du Reel (Parigi, 2011) e Menzione speciale della giuria V edizione Visioni Fuori Raccordo Film Festival (Roma, 2011), per svelare e cogliere ancora più da vicino l’essenza di una realtà e di un confine metropolitano. Un’indagine che vuole far riflettere, senza mai giudicare, sui retrobottega delle città, su quello che anche se non si vuole vedere, c’è ed esiste. Un coro di voci diverse che delineano i contorni e le presenze di una no man’s land sulle rive del fiume Stura. Sfoglia un estratto del libro Gli autori: Marco Allocco, Massimo Bavastro, Piergiorgio Bevione, Giovanni Brino, Niccolò Bruna, Antonio Castagna, Ilaria Castiglioni, Pietro Cingolani, Gabriele Di Fronzo, Olga Gambari, Michele Lancione, Paolo Manera, Luca Morino, Giorgia Odorico, Andrea Parena, Luca Rastello, Gaia Rayneri.

Clicca sul link sottostante per leggere un anteprima del testo http://www.justbolder.net/fmpq/FMPQ_libro.pdf

aprile 5, 2012

MYSTERY SHOPPER di Antonio Bachis, edizioni Maestrale. Un libro con il doppiofondo.

Trama: Mystery Shopper è una nuova figura professionale, chiamiamolo un finto cliente, fruitore di servizi. I suoi committenti sono grandi società che vogliono mettere alla prova la pazienza o la fedeltà dei propri collaboratori, con l’intento, naturalmente, di disfarsi di loro. Lui trova i loro punti deboli e li colpisce. Sempre. La storia svolta quando un oscuro committente propone al Mystery Shopperdi provare un rivoluzionario farmaco che provoca la felicità. Da quel momento in poi niente è come ve lo aspettereste.

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Non fatevi ingannare dall’ironia diffusa, che è un po’ il sapore dominante del racconto. La ricetta è tanto coraggiosa quanto calcolata: Partire da un personaggio sul quale non c’è molto da discutere: è odioso. Lo è dalla prima parola che pronuncia. Il Mystery Shopper di Bachis lo fa con cinismo che va al di là del mandato professionale. Ma la scelta di un personaggio del genere è strategica. Perché il lettore così non sia distratto dal processo di giudizio, o immedesimazione, che egli intraprenderebbe. In questo modo, è  più agile, ha più energie e non dovrà mai difendere una scelta di campo.

Al di là dei tempi e dei modi della “fabula”, del tema interessante e quanto mai attuale della mercificazione del lavoratore, il romanzo propone una variazione alternativa al tema della metamorfosi, del divenire in generale.

Senza dover partire da Ovidio e dai grandi classici. Da Foscolo, e della metamorfosi rispetto all’osservazione della natura. O la metamorfosi di tipo religioso, tanto cara al Manzoni. Avvicinandoci ai giorni nostri, con Svevo e Pirandello nel novecento la metamorfosi spesso coincide con la scissione dell’io e con la scoperta dell’inconscio. La metamorfosi quindi come un processo molto più sottile e psicologico. MS è anch’egli, prigioniero di una maschera, e quando tenterà di uscirne, sotto l’effetto dell’iniezione coatta di felicità, proverà ad osservarsi dall’esterno. Non riuscendo più a rientrarci sarà costretto ad una metamorfosi. In Mystery Shopper questo non avviene, o meglio non viene narrato, è per questo che uso il tempo futuro. E’ interessante immaginare come questa fase finale della metamorfosi Bachis ce l’abbia risparmiata, perché scontata, rendendola implicita a partire dall’ultima riga in poi.

Ricorrendo a questo espediente Bachis ci ha così risparmiato il noioso e scontato passaggio della redenzione.

In “Tutto quello che avremmo potuto essere io e te se non fossimo stati io e te” di Espinosa l’iniezione del farmaco misterioso interagisce direttamente tanto con il carattere del personaggio quanto con il registro della scrittura.

Nel libro di Bachis avviene qualcosa di molto meno atteso. La metamorfosi finisce per riguardare più che altro il contesto attorno al Mystery Shopper, come se l’iniezione fosse stata fatta non a lui ma al mondo che lo circonda.

Questo particolare apparentemente leggero, è invece un artifizio di grande maestria. Quello che ci accade, forse quello che siamo, è spesso frutto della nostra interazione con gli altri.

Questa sensazione sottile, quasi impalpabile, attraverso la magia della scrittura, di questo mezzo incredibile che è la letteratura diventa anche solo per un attimo vera, tanto che ci sembra di averla vissuta in prima persona, come un’esperienza di vita reale. Ci sono stati d’animo che nessuno può indurci, nemmeno con la chimica. Un buon libro invece si. Ha il potere di farlo.

MM