Posts tagged ‘massimo miro’

aprile 28, 2023

Per Salone OFF, l’autore presenta “La faglia” alle officine CAOS – Casa di Quartiere Vallette

Nell’ambito di Salone OFF – e all’interno del progetto Leggermente – Massimo Miro presenta La faglia (Scritturapura, 2022) alle officine CAOS – Casa di Quartiere Vallette, incontrando il Gruppo di lettura Vallette.

Evento in collaborazione con Libreria Gulliver e casa editrice Scritturapura

https://bct.comune.torino.it/eventi-attivita/incontri-con-gli-autori/leggermente-incontra-massimo-miro?fbclid=IwAR0ZXWuPiJvnOYlv2xPdoNAHAs-aXwJpqsa3oyYSn8X8u0sVfRGSq4YOxPE

«Torino, maggio 1978. Il grigio non è solo il colore dei muri di periferia. Cinque ragazzi, cresciuti tra piccoli furti e scontri tra bande sulle strade che dividono i casermoni di cemento del loro quartiere, decidono di passare alla Storia: porteranno via Aldo Moro dal covo in cui le Brigate Rosse lo tengono prigioniero.
Torino, luglio 2006. Gomez ne ha fatta di strada: è ingegnere, ha una moglie, una figlia e una villetta in Brianza. Eppure la sera della finale dei Mondiali, quando l’Italia sta per scendere in campo contro la Francia, anziché seduto sul divano davanti alla tv con una birra in mano, è di nuovo in Borgo Stura. 
Una storia dal ritmo serratissimo, una parabola vorticosa di giovani vite incompiute, in lotta disperata per la salvezza» (dal sito dell’Editore). 

Massimo Miro è nato a Milano nel 1967. Vive e lavora a Torino. Musicista e compositore, collabora con diverse case editrici. Una sua raccolta di racconti è uscita nel 2001 con il titolo di Sbàuz (Prospektiva Editrice). Con il romanzo Hanno sparato a John Lennon è stato finalista del Premio Italo Calvino nel 2001 e si è aggiudicato il riconoscimento francese assegnato dall’Universitè de Savoie di Chambery. Un suo racconto, Questa non è una canzone d’amore, è stato inserito in una raccolta di racconti edita da Miraggi Edizioni, dal titolo L’amore non c’entra nel 2015. Nel 2021 pubblica il romanzo Suite berlinese, Scritturapura.

aprile 28, 2023

Il Kyr Royal di Borgo Stura

Sentite questa storia,

Di questo storico cocktail della Borgogna, i grandiosi di Borgo Stura ne sentirono parlare da uno zio della Basilicata che faceva il camionista e che lo aveva assaggiato in Francia. Da allora era diventato il loro sogno mai realizzato, la loro chimera. Mai in vita loro avevano visto, e avrebbero più visto, una bottiglia di champagne, figurarsi con lo sciroppo di cassis.

Un giorno a Gomez ormai trentenne, durante un viaggio d’affari a Parigi, venne offerto un flute su un vassoio d’argento. – Kir royal monsieur? –

Gomez trasalì. Prese il calice, lo portò alle labbra, e chiuse gli occhi. Senti il profumo dolce del cassis, l’ebbrezza delle bollicine dello champagne sotto al naso. Ecco quale era quella sensazione che aveva sempre e solo immaginato.

Buttò giù tutto di un sorso, come i grandiosi facevano con la Peroni o con un bicchiere di Cuba libre in discoteca.

Si sentí un gran signore, uno di quegli uomini rispettabili, tanto diversi da quei piccoli scarti della società che si sentivano di essere in quelle grigie e monotone periferie della città.

Pensò che in fondo la sua missione, d’ora in poi sarebbe stata quella di vivere ogni istante anche per chi non c’era più.

I grandiosi di Borgo Stura che sorseggiano un cazzo di Kir Royal nella hall di un albergo a cinque stelle di Parigi.

Roba da non credere.

Che follia è a volte la vita.

aprile 28, 2023

Massimo Miro incontra gli studenti, si parla del sequestro di Aldo Moro nel romanzo La faglia

Il sequestro di Aldo Moro nel romanzo La faglia. Massimo Miro ha incontrato gli studenti presso il Municipio di Rivarolo Canavese.

Dopo l’incontro con Arturo Mariani, fondatore della Roma Calcio Amputati, con gli studenti dell’Istituto comprensivo “Guido Gozzano”, il 5 aprile due classi seconde dell’IIS “Aldo Moro” hanno incontrato in Sala consiliare lo scrittore Massimo Miro, autore de La faglia. Il romanzo degli ultimi figli della classe operaia, edito da Scritturapura.

Spaccatura generazionale

Richiamandosi al titolo del romanzo, nella prefazione il regista Davide Ferrario ricorda che “Le BR furono il simbolo della prima, definitiva separazione tra padri e figli che cominciò negli anni Settanta e che si ripete ciclicamente a ogni generazione. Fu allora che i figli degli operai smisero di capire il senso della vita dei loro genitori e cominciarono a cercarne un altro, senza avere però nessuna bussola per trovarlo”.

I temi affrontati

Massimo Miro ha condiviso con gli studenti anche alcuni aspetti del processo creativo e del percorso che affronta un autore dalla scrittura fino alla pubblicazione. Considerando che gli anni Settanta vengono soltanto accennati nei programmi scolastici, Eva Capirossi, della casa editrice Scritturapura, fondata ad Asti nel 2011, ha sottolineato il ruolo che le narrazioni possono svolgere per accostarci ai sentimenti delle generazioni precedenti, arricchendo dal punto di vista emotivo l’analisi di un periodo storico.

A nome dell’Amministrazione comunale, l’Assessore allo Sport Helen Ghirmu ha evidenziato la scelta di ospitare le presentazioni in Sala consiliare, spazio per eccellenza dedicato al confronto politico, e invitando gli studenti a partecipare alle occasioni d’incontro per stimolare pratiche di cittadinanza attiva e impegnata.

Dal confronto tra gli studenti e Massimo Miro è emersa l’attenzione verso un periodo storico poco noto, magari incrociato per caso nei servizi televisivi in occasione degli anniversari, ma anche la curiosità per le dinamiche creative da cui trae origine un romanzo.

“Nelle presentazioni dedicate alle scuole trovano spazio opere di case editrici locali” segnala l’Assessore alla Cultura Costanza Conta Canova testimoniando “l’impegno della Biblioteca comunale “Domenico Besso Marcheis” per avvicinare il pubblico a titoli che, oltre i canali pubblicitari consueti, racchiudono elementi di interesse per i lettori ed esprimono un profondo legame con il territorio”.

Prossimo appuntamento

Il ciclo di incontri con gli studenti proseguirà mercoledì 12 aprile con il romanzo fantasy Lo scorpione di smeraldo di Veronica Pepoli e mercoledì 19 aprile, quando Giorgio Bona proporrà Da qui all’Eternit, romanzo ambientato a Casale Monferrato che ripercorre la parabola della lavorazione dell’amianto fino alla messa al bando per le ripercussioni sulla salute e alle speranze di rinascita con la bonifica del territorio.

marzo 25, 2020

Quando un romanzo è per tutti. La gioia fa parecchio rumore – Sandro Bonvissuto

9602726_4419826Non ha un nome, il personaggio narrante di La gioa fa parecchio rumore, splendido romanzo sulle grandi passioni che scuotono l’albero dell’animo umano. Non ha un nome perché quel nome dovrebbe essere composto da tutti i nostri, uno in coda all’altro, allora quel nome sarebbe talmente lungo che occuperebbe tutto il romanzo, perché non fatevi ingannare dalle apparenze, il centro di questo romanzo non è calcio. Questo è un romanzo sull’amore e per l’amore, visto con gli occhi disarmanti dell’innocenza, con il pretesto di una incrollabile fede calcistica, Sandro Bonvissuto ci svela uno dopo l’altro meccanismi che fino a poco prima ci sembravano complicatissimi. Riesce a farlo come serve, a volte con il disincanto, a volte con il linguaggio di quella romanità popolare monicelliana, diretta e irresistibile. “ I romani sanno essere terribili, i romanisti ancora di più”. Una città che è capace di portarti continuamente dal paradiso all’inferno, nel cantico delle tribune dal quale partono dichiarazioni di devozione assoluta e gesti di irriverenza dissacrante, basta un passaggio sbagliato perché si commenti “quello ci’ha a visione de gioco de ‘na staccionata!” e poi l’azione successiva, per un dribbling riuscito “aò, te l’avevo detto che è ‘n fenomeno

Non hanno un nome nemmeno gli altri protagonisti, sono solo padri, zii, madri, vicini di casa, figure che ci sembrano subito familiari, con la loro filosofia semplice e immediata, sono entità onniscienti, anime di una vivace epica borgatara dei primi anni ottanta, ricostruita con fedeltà assoluta. Non è mai chiamato per nome, nemmeno il protagonista per antonomasia, quello in copertina, il “forte centrocampista” venuto dal Brasile per prendere in mano le redini del destino, non solo di una squadra di calcio, ma di un popolo intero, quello pervaso dall’amore incondizionato per una maglia, fiero nella sconfitta e quasi più a suo agio “nella parte destra delle classifica” che non nei panni del vincitore. Quello straniero accolto all’aeroporto da una moltitudine già in festa, arrivato dalla città con ogni mezzo, tra canti, bandiere e panini con la frittata. Quello straniero che scese dall’aereo con così tanta sicurezza, “che pareva lui er pilota”.

E’ quella, la gioia che fa parecchio rumore. Prima ancora di quella per la vittoria tanto attesa, quella che verrà, la gioia di quel popolo chiassoso e colorito è quella più autentica e universale: quella per l’orizzonte della riscossa. E’ una gioia che non ha colori, maglie e stemmi. E nemmeno nomi.

Qualunque fervente passione infuochi la vostra anima, questo libro è per voi.

 

La gioia fa parecchio rumore” – Sandro Bonvissuto

Edizioni Einaudi 2020.

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/la-gioia-fa-parecchio-rumore-sandro-bonvissuto-9788806217723/

aprile 20, 2018

La Madonna col cappotto di pelliccia. Tragedia d’amore o metafora dell’oppressione?

la-madonna-con-il-cappotto-di-pelliccia-904x670Sabahattin Ali, intellettuale comunista e giornalista. Negli anni venti e trenta, per i suoi articoli contro il regime di Ataturk finisce in carcere più volte. Forse è per questo che tantissimi ragazzi di Piazza Taksim e Gezi Park, durante le manifestazioni del 2013 contro il regime di Erdogan, hanno nello zaino una copia del suo romanzo “Madonna col cappotto di pelliccia”, pubblicato per la prima volta nel 1944, e resuscitato proprio nel 2013, riproposto da una piccola casa editrice turca, e nel 2015, per l’Italia, da Scritturapura. Il romanzo, che in Turchia ha venduto in questa seconda vita più di un milione di copie, appare di per sé come una semplice, seppur travagliata storia d’amore. La Madonna col cappotto di pelliccia non è un romanzo politico, ma ostentare una copia di un libro di Ali, ad Istanbul, oggi, è un gesto di opposizione silenziosa molto coraggioso. Sabahattin Ali infatti, muore in circostanze misteriose, nel 1948, al confine con la Bulgaria, probabilmente ucciso dal suo passeur, o indirettamente dal regime (o quel che ne rimaneva) che aveva sempre combattuto con i suoi articoli su varie riviste, tra cui sopratutto Marco Pasha.

La scrittura di Ali appartiene ad una certa Europa. Quella di Kafka e Pessoa, con i loro personaggi che fanno mestieri poco affascinanti, sono metodici e produttivi. Per l’attenzione al particolare, fino quasi alla paranoia, tanto che lo stile che ne viene fuori è quasi monocolore, la narrazione monocorde e ipnotica. Sembra di partecipare senza mediazioni ai pensieri del personaggio narrante, in diretta. Per quanto riguarda la trama, il romanzo incarna i canoni più classici del romanzo romantico tragico, persino all’eccesso.

Berlino, 1922. Raif passa ore intere dentro una galleria d’arte, ad ammirare un dipinto con una donna bellissima: la Madonna con la pelliccia. Raif si innamora perdutamente di quella donna, che poi esiste, si chiama Maria, ed è di origini ebraiche. I due iniziano una relazione complessa. Lei è forte, determinata, lui è sensibile, troppo sensibile. E’ l’anticipazione del disequilibrio. La donna determinata, spregiudicata, l’uomo impaurito e passivo. Se pensiamo a quando è stato scritto questo testo (1940-41), riusciamo ad ammirare il gioco di specchi che Ali ha costruito, con sapienza, e soprattutto grande intuizione.

La Madonna col cappotto di pelliccia è quindi solo una tragica storia d’amore? Non saprei dirlo. Forse si. Oppure no.

La società turca è troppo complessa perché noi europei la si possa decifrare, ogni tentativo di andare oltre la storia è davvero un grande azzardo, ma io non riesco ad immaginare un personaggio come Sabahattin Ali, perseguitato politico, che scrive una semplice storia d’amore tra un uomo e una donna.

Perché un intellettuale, dissidente, che ha vissuto sulla propria pelle la violenza di un regime, dovrebbe scrivere una storia d’amore ambientata a Berlino, tra il 1923 (tentativo di colpo di stato di Hitler) e il 1933 (inizio della persecuzione degli ebrei con la notte dei lunghi coltelli), senza mai inserire un minimo riferimento, anche solo una riflessione, una frase sulla violenza delle dittature? Come se nel romanzo avesse voluto lasciare un grande protagonista sottointeso. Cosa impedisce a Maria e Raif di vivere felicemente il loro amore? Qualcosa di superiore al quale bisogna assoggettarsi, e ne determina l’odiosa ingiustizia. Il destino dei personaggi è schiacciato da questa forza superiore, ed è accettato con passività. Ecco come rappresentare la violenza di un regime totalitario. Come un qualcosa che irrompe nella vita di tutti i giorni, e ne soffoca il diritto alla vita.

Un libro che consiglio vivamente.

La Madonna col cappotto di pelliccia. Sabahattin Ali

Pubblicato in Italia da Scritturapura, 2015

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Sabahattin Ali. Berlino, Tiergarten

settembre 13, 2017

Polesine. La nostra Amazzonia in cortile

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Non lo so nemmeno io, perché ultimamente mi sono appassionato così tanto alle terre del Delta del Po.

Io che sono sardo e per noi sardi acqua e terra sono due componenti ben definiti da adorare e temere in misure ben certe e contrapposte. Ma io sono sempre stato attratto da tutto ciò che è sospeso nel tempo, a tutto ciò che oppone resistenza al cambiamento. A tutto ciò che è immobile, ed è. Esiste. A dispetto della modernità, delle cose che cambiano. Una silenziosa opposizione alla truffa.

Viviamo in città sempre più caotiche, frammentate da nuove geografie funzionali che le isolano dall’esterno. I centri sono entità a parte, hanno una loro identità specifica, mentre le periferie sono tutte uguali. Queste nuove geografie funzionali (per non chiamarle cicatrici) sono descrivibili solo per la funzione che svolgono, che quasi mai è quella di piacere, ma solo di trasportare, collegare, realizzare spine, passanti, tunnel metropolitani, oppure per ricucire ferite del passato, perpetrando però gli stessi errori, come ricalcare vecchi tracciati ferroviari, il tutto chiamato con nomi leggiadri ma fuorvianti, troppo belli per ciò che rappresentano. Sono proprio questi, quelli che l’antropologo francese Marc Augé chiama “non luoghi”.

Il Polesine è certamente (diventato) l’archetipo dei non-luoghi italiani; una vasta depressione tra due grandi corsi d’acqua, avvolta da una nebbia chimica quasi eterna, sotto al livello del mare. Un territorio dai confini variabili a piacimento della natura.

Il Polesine è un posto dove da sempre è difficile vivere. E famoso per le alluvioni, per essere sempre stata terra di emigrazione, come un Sud incastonato nel nostro profondo e industrializzato Nord. Un luogo deve avere tre caratteristiche essenziali: essere identitario – in grado quindi di individuare l’identità di chi lo abita – essere relazionale – stabilendo una reciprocità dei rapporti tra gli individui funzionale ad una comune appartenenza – essere storico – mantenendo la consapevolezza delle proprie radici in chi lo abita. Il Polesine non è niente di tutto ciò.

Due libri hanno soddisfatto la mia fame di immersione in quei luoghi attraverso le parole, in attesa di poterci andare di persona, spero presto: “Anime galleggianti”, (La nave di Teseo) di Vasco Brondi e Maurizio Zamboni. Vasco Brondi è autore e cantante de Le luci della centrale elettrica, a mio avviso il progetto più interessante della scena musicale dell’ultimo decennio, e “Confessioni audaci di un ballerino di liscio”, (Baldini&Castoldi) di Paola Cereda, una delle autrici più talentuose del nuovo panorama della letteratura italiana. Con entrambi ero già in contatto diretto, perché loro sono due dei miei artisti preferiti, con le loro opere sanno sempre come arrivare a me, cosa raccontare, con quali ritmi. Li avevo già seguiti nei loro viaggi di città, di periferia, di bassa padana, di Sud Italia e li avevo amati, sempre. Stavolta è come se si fossero messi d’accordo per portarmi in quella terra affascinante, senza nemmeno conoscersi tra di loro anche se vorrei che lo fosse, per raccontarmi cos’è la vita lì, di cosa è fatta.

Anime galleggianti è un viaggio a bordo di una zattera a motore, la discesa di un canale preso da una strada provinciale, come una porta di un universo parallelo. Da lì inizia un viaggio fino ad arrivare al mare, approdo finale. Ci vorranno due giorni di viaggio,” come andare in Australia o alle Hawaii”. E’ un viaggio tra Pescatori di frodo che appaiono all’improvviso tra le fronde, e alla vista di altri esseri umani ritraggono in fretta e furia i loro galleggianti. Stanno in postazioni ritagliate nella fitta vegetazione, attrezzate con ombrelloni e una sedia di plastica che sembrano troni aborigeni.

Ore di navigazione con gli aironi che ogni tanto condividono la strada dal cielo, la vegetazione fittissima ai lati, senza incontrare niente e nessuno, poi sfiorare il mondo civilizzato di una strada statale, vista da una prospettiva diversa, a pelo d’acqua, qualche ponte in ferro, che chissà l’ultima volta che qualcuno lo ha attraversato.

Luoghi ai margini del mondo in cui ascoltare le proprie solitudini e le proprie fantasticherie, in contemplazione dei silenzi d’acqua. Il Polesine, la nostra Amazzonia in cortile, popolata da anime sospese nel tempo, personaggi leggendari che sfidano l’inospitalità di quei luoghi fino a vincere il braccio di ferro tra resistere e desistere, stabilirsi in baracche, case, ville, roulotte, impiantare attività, impadronirsi di spazi altrimenti di nessuno, diventare alieni nel centro esatto dell’Europa, tra un Est e un Ovest mai così vicini, in nessun altro luogo.

Uno di questi luoghi, non troppo in lontananza, potrebbe essere Bottecchio sul Po, e quella casupola in mezzo al nulla il Sorriso Dancing Club, gestito da Frank Saponara, ballerino di liscio, fedele alla tradizione e impermeabile alle novità, ma anche uomo incapace di amare una donna fino alle estreme conseguenze di una vita condivisa.

Confessioni audaci di un ballerino di liscio è una storia di bilanci, di rimpianti non ammessi. “C’è da amarla questa baldracca della vita” perché ha le virtù di ogni donna che Frank ha amato. “Ci sono persone che attraversano la nostra esistenza con lo scopo di lasciare un segno”.

Alla festa dei cinquant’anni del Sorriso quelle persone ci sono tutte, una via di mezzo tra un amarcord e un giudizio universale. Scorrono come un fiume davanti ad un Frank immobile, nel suo tempo andato. Personaggi sopra le righe, eccessivi, eccentrici, o semplici fino al midollo. Una kermesse di umanità che credevamo scomparsa nel tempo, insieme alle balere con le luci stroboscopiche, i gin tonic, il ghiaccio secco, e i cravattoni.

Ma c’è qualcosa di profondo, che rende tanto autentico il personaggio di Frank e i suoi luoghi. Il fiume che scorre, l’immagine degli argini che non cedono malgrado le piene, malgrado tutto ciò che il fiume raccoglie nella sua corsa verso il mare attraversando centinaia di chilometri di terre lanciate senza freni nella modernità. «La notte mi consolai con quattro gin tonic e un classico del liscio, illudendomi di poter bastare a me stesso. Dopotutto le persone finiscono per assomigliare ai luoghi dove vivono, provavo a convincermi, e io dovevo al fiume il mio perpetuo scorrere.»

Confessioni audaci di un ballerino di liscio è prima di tutto una storia scritta divinamente bene, tanto che in alcuni momenti ti sembra di sentire la musica dell’orchestra, i profumi alcolici dell’acqua di colonia delle signore, mischiati alla polvere della pista da ballo e al sudore. All’odore stantio del fondo dei vermouth nei bicchieri.

Una avvertenza per chi vorrà addentrarsi in queste terre parallele e misteriose, tra realtà fotografica e letteratura di altissimo livello.

Il rischio è quello di rimanerci incastrati dentro. Per sempre.

 

MMP

 

 

 

 

giugno 23, 2016

Italie-Irlande : à la tienne, Roddy Doyle !

 

Stadio di Lille, 23/06/2016 – Italy Vs. Ireland.

E’ che l’Italia non ci è abituata a certe situazioni, dai diciamocelo chiaro fin da subito. Presentarsi all’ultima partita con la qualificazione già in tasca, da primi del girone. Ma quando mai si è visto. Noi italiani ci troviamo a disagio nel ruolo di secchioni, primi della classe. Senza nemmeno un complotto dei poteri forti, solo una passeggiata di salute e quella triste, teutonica classifica a punteggio pieno.

Parte l’inno italiano. I tifosi irlandesi si alzano in piedi e iniziano a cantare, inventandosi le parole come facciamo noi con le canzoni degli U2 o dei Cranberries. E’ un momento molto bello, un gesto privo di retorica che subito, noi italici, fatichiamo a decodificare, ci spiazza. Ma perché cristo perché?

L’Europeo potrebbe finire qui, non c’è nulla da aggiungere. In certi momenti pare che alcuni tifosi della marea verde azzecchino più parole giuste del nostro capitano Bonucci.

Signore e signori, inizia Italia-Irlanda, il derby di Ellis Island, New York.

Per la prima mezz’ora, Antonio Conte ripete instancabilmente uno-due, uno-due, mimando con le mani un macellaio che taglia una bistecca, o uno alle prime armi che fa massaggi shatzu. I nostri giocatori non lo capiscono. Barzagli e De Sciglio si guardano cercando conforto uno nello sguardo dell’altro. Intanto gli irlandesi si vede che hanno più motivazioni di vincerla sta partita. A noi italiani non va giù sta smania di finire a punteggio pieno il girone. E cos’è? Cosa ci si guadagna? Vada per la fatica di capire le regole della classifica avulsa, ma a capire sta cosa del prestigio proprio non ci arriveremo mai.

Gli irlandesi corrono e picchiano. Alcuni, a dire il vero pare abbiano delle caldaiette al posto dei piedi, fanno dei controlli del pallone da brivido. Però il calcio dice che a volte le motivazioni valgono più delle qualità tecniche in campo. Ed è per questo che noi italiani non si tocca palla.

Gli spalti sono pienissimi.La marea azzurra, tanto invocata dalla Federazione Italiana Giuoco del Calcio non c’è stata. Qualche macchia azzurrina, celeste, ciano, bluette, sparsa qua e là e niente di più. Forse siamo poco più su dei numeri della statistica. Forse quelli con la maglia azzurra sono dei ciprioti che casualmente indossano una maglia azzurra.

Quando i nostri tifosi sono stati raggiunti dall’appello erano ormai partiti da casa. Erano già in roaming internazionale. Addosso, e nel bagaglio a mano, avevano solo polo Lacoste o Ralph Laureen dalla tinta tenue, tipo pesca, ciclamino o giallo senape.

Tra gli spettatori passano degli addetti dello stadio, selezionano quelli vestiti di azzurro, li raggruppano sulle gradinate e li fanno passare al maxischermo per par condicio cromatica. Qui a Euro 2016 la parola d’ordine è pari opportunità. Ho visto con i miei occhi uno che si ritrovava sul maxi schermo con la maglia di Schillaci che si copriva il volto. – Figura di merda – diceva il suo labiale, mentre si teneva la testa tra le mani.

Inizia il secondo tempo e la musica non cambia. Irlandesi assatanati, italiani timidi.

Vista la schiacciante predominanza del verde irlandese sugli spalti, gli addetti della Federazione passano distribuendo magliette azzurre, costringono i tifosi ad indossarle, anche quelli che protestano perché sono di tessuti acrilici e fanno le scintille. Altri perché gli si spiegazzano tutte le polo.

Antonio Conte, promotore dell’iniziativa “operazione #marea azzurra”, fa chiedere alla regia di Sky se si possono anche solo ritoccare le immagini televisive con dei filtri tipo Paintbrush e fornire al paese a casa tutta un’altra immagine di compattezza.

Mi viene in mente tutta una bella cosa da scrivere sulle affinità e sulle diversità tra italiani e irlandesi per commentare uno zero a zero finale, ma ad un certo punto, a qualche minuto dalla fine l’Irlanda segna, e lo stadio esplode. A vedere tutti i suoi tifosi in lacrime per la gioia mi prende un groppo in gola.

L’Irlanda passa il turno grazie ad una serata eroica, indimenticabile.

Noi si passa primi di girone non per merito, ma per una tanto pusillanime quanto confortante differenza reti.

Tutto torna.

Mi apro una birra.

Alla salute, Roddy Doyle!

Massimo Miro

Maggio 10, 2016

Borgo Stura in scena

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A quattro (4!) anni di distanza dall’uscita del romanzo, Borgo Stura è ancora viva grazie alla compagnia Artemuda e al talento dei suoi attori.

Sabato 14 maggio 2016, ore 21 – TORINO – Spazio ArTeMuDa
Via Drusacco 6
Ingresso libero con tessera ARCI

Lettura teatralizzata tratta dal romanzo “La faglia” di Massimo Miro (ed. Il Maestrale)
Con: Igor Casella, Fabio Liberatore, Roberto Micali, Renato Sibille, Patrizia Spadaro.

Evento organizzato in collaborazione con l’Associazione di Volontariato Aporti Aperte e l’Agenzia Formativa Forcoop. La serata sarà dedicata alla raccolta di fondi destinati al Fondo di Solidarietà dedicato ai ragazzi ospiti dell’Istituto Penitenziario Minorile Ferrante Aporti. Oltre alla lettura di alcuni estratti dal libro di Massimo Miro saranno esposte al pubblico fotografie e opere in ceramica realizzate nei laboratori dei Corsi Professionali gestiti dall’Ati Forcoop Agenzia Formativa, Fondazione Casa di Carità, Arti e Mestireri Onlus e E.N.Gi.M. Piemonte, presso l’IPM Ferrante Aporti.

L’evento è inserito nel ciclo di eventi Geografie della scena.

L’Associazione ArTeMuDa aderisce alla campagna “Illuminiamo il futuro” organizzata da Save the Cihildren, realizzando il reading de “La faglia” durante la settimana di mobilitazione “7 Giorni per il Futuro”.

 

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Maggio 11, 2015

Di S orD er – prodromi di scrittura

beatiful minds

Non è stato facile concepire un altro mondo dopo Borgo Stura. Tutto mi riportava lì, come se l’immaginario seguisse solchi profondi, tanto è ancora vibrante e forte, sollecitato e autonomo, il riverbero di quella storia fuori dalle pagine. Sono stati tre anni di letture e riflessioni. Soprattutto riflessioni intorno al ruolo del romanzo nella letteratura contemporanea, e più in generale nella contemporaneità. A chi importano ancora le storie? O meglio: a chi importa leggerle se io le scrivo?

Se è vero che l’artista affida al gesto creativo la sua intima visione del mondo, è vero, che egli dipinge sempre lo stesso quadro, compone sempre la stessa canzone, scrive sempre la stessa storia.

Se questo è vero allora tutto è replica, serigrafia, ostinata perlustrazione di substrati sempre meno densi che costringono l’edificazione di strutture e contenitori per sorreggere e contenere materiali senza consistenza, che diversamente non avrebbero forma indipendente quindi bellezza.

Odio quando la tecnica diventa solo uno strumento per dissimulare la serialità. Quando le parole, le immagini, i suoni, le armonie sembrano scritte per consolarci, mentre ci viene nascosto che stiamo assistendo al risultato di un ciclo di produzione. Scrivere, leggere. Comporre, ascoltare. Disegnare, guardare.

Allora ho voluto sottrarmi all’idea di provocare quella sensazione agli altri, la sensazione che io stia per dire la stessa cosa che avevo già detto, ma in un modo diverso, o ricomponendo la stessa voce, lo stesso io narrante, anche affidandogli cose diverse da dire e fare, ma con la stessa tonalità e cadenza. Non avevo nessun contratto che mi ingiungesse a farlo, ed ero pronto a non farlo più.

Per tornare in qualche modo ad uno stato primordiale, completare il processo in senso inverso e ritrovare la materia originaria, senza segni di plasmatura pregressa, ho dovuto lasciare passare un periodo di tempo diciamo refrattario, creando uno spazio di decantazione.

Ho pensato alla visione di letteratura che ci hanno lasciato in piccole tracce alcuni immensi autori.

Wallace Foster David, quando conclude uno dei suoi ultimi racconti con questa perentoria frase: “Non una parola di più”. Come se dopo ogni finale di storia vi fosse il nulla? Come se la storia finisse lì, e non ci fosse altro modo per raccontarla? Come se ogni parola in più fosse una ripetizione, quindi di troppo? Una lezione di onestà? Una dichiarazione di resa?

A proposito di lezioni, Italo Calvino, nel suo Lezioni americane, quando dice che “La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibilità di realizzazione”.

L’ambizione più grande per uno scrittore, per Flaubert era quella di riuscire a scrivere un romanzo sul nulla. Per altri autori come Borges, Goethe, e soprattutto Perèc, l’ossessione si concentrava sulla rappresentazione del modello dell’universo in ogni suo codice finito o indefinito, nella sua “indistricabile complessità”. Ma esiste un modello di universo, e se esiste, è riproducibile? E’ conciliabile con le misure della letteratura? O esso ci riporta al punto di partenza perché di fronte ai limiti dell’intelletto ci impone comunque la stessa approssimazione che applichiamo nella vita reale, ogni giorno. Facendo finta di credere cioè, che ogni cosa abbia un inizio ed una fine. Che ogni cosa immaginabile punti verso un infinito ignoto o torni ad un punto di partenza.

Imbattersi in questa ambiziosa ricerca, non è quindi destinarsi fatalmente all’incompiuto, all’indecifrabile?

Ed è con queste gigantesche domande sospese, che dopo tre anni di silenzio, sguardi nel vuoto, sobbalzi emotivi, apatia, appunti lasciati ovunque, ho iniziato a scrivere Disorder, nel suo nucleo germinale, senza partire né dai personaggi, nè dai luoghi, né addirittura dalla trama.

Quanto vale, in termini assoluti, la vita per come la viviamo, rispetto alla percezione che gli altri hanno di noi? Abbiamo il controllo sulla nostra vita? E se un giorno, per caso, giocando pericolosamente con queste riflessioni e con esperimenti che coinvolgono il tempo, scoprissimo che la nostra vita, con la sua galassia di eventi grandi e piccoli, non è semplicemente un succedersi di eventi governato da un flusso caotico e imprevedibile, ma il verificarsi puntuale di un disegno?

Venire a conoscenza di quel prezioso codice, avvicinarsi al divenire senza nominarlo mai, affiancarlo, superarlo, comprenderlo. Tenerlo in pugno.

Che i nostri pensieri, le nostre emozioni, non costituiscano in qualche modo materia, non è in fondo, ancora oggi, una teoria inspiegabile?

E’ un viaggio entusiasmante. Spero di portarvi presto con me.

MM

Torino, maggio 2015

dicembre 7, 2013

Voci e parole. Processi inversi

7/12/2013 – Altri Sguardi – 

Dicono che le storie prendano vita quando da manoscritti, o da semplici idee diventano libri. Se questo è vero, allora la storia della faglia è nata una seconda volta, perchè è tornata alla voce, cioè la forma con la quale mi era apparsa guidando l’auto, reggendomi in curva su un pullman, ascoltando il silenzio della notte. Allora non feci altro che trascrivere quella voce su fogli di fortuna, niente di più, e mettere insieme tutto in forma di parole, punteggiatura. La voce è una forma viva, pulsante.

In questo strabiliante processo inverso, Renato Camoletto, Roberto Micali, Renato Sibille, Igor Casella e Fabio Liberatore, danno la parola agli spazi, alle virgole, agli a capo. Danno il silenzio, l’espressione, il movimento, alle parole. Stasera è stato un onore, ancora una volta.

Grazie Artemuda.

MM

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